venerdì 18 aprile 2008

Mastella e i Filistei


Quando ancora non era immaginabile l'esito catastrofico della crisi (era la destra che sembrava dibattersi in una crisi mortale), la celebrità nostrana, Clemente Mastella, fu coinvolto con il suo "cerchio magico" in un'inchiesta, tutt'ora in corso. Sembra un secolo fa... Rilasciai delle dichiarazioni abbastanza pesanti al «Corriere del Mezzogiorno», mi fu chiesto di ampliarle eventualmente. Scrissi un pezzo, mai pubblicato, per motivi ignoti (era il 20 gennaio). Eccolo qui. (Mastella non è il responsabile di quanto accaduto, ma se il governo Prodi avesse resistito fino all'estate, Berlusconi sarebbe scomparso dalla scena politica. Di questo ne sono certo. Quindi ha una responsabilità enorme nella storia italiana dei prossimi dieci, quindici anni. E non ha portato nulla a casa!)

Le macerie e il deserto

È molto difficile parlare di quanto sta accadendo nel Sannio e in Campania. Lo è in assoluto, ma lo è certamente di più per chi associa ai nomi ripetuti dai telegiornali volti di persone conosciute, talvolta amiche. È ancora più difficile quando quel mondo che ora è sotto accusa è stato il proprio mondo familiare, in cui “Sandra”, ad esempio, era una cara amica di tua madre. Per questo non è possibile per me non restare sgomento rispetto a questa bufera. Eppure, mi è stato insegnato, «una cosa è il giudizio, un’altra la pietà». E allora, mi dico, è quanto mai urgente, è doveroso anzi, cercare risposte razionali.
Prima, però, a margine, da “povero cristiano” senza chiesa, mi sento interpellato da alcune parole ascoltate sul piano non morale, non religioso ma spirituale. Ho sentito abnorme e profondamente contrario al messaggio gesuano imputare la “persecuzione” giudiziaria alla testimonianza dei valori cattolici. Al cattolico Mastella – in positivo - dico: la sequela Christi presuppone il consegnarsi ai propri carnefici senza opporre resistenza. Questo forse andava testimoniato davanti agli italiani, piuttosto che evocare, con suggestive metafore sfuggite ai più (il calice, la feccia, l’imminente Pasqua), il proprio “martirio”. In negativo, il cristianesimo ci educa al senso del limite dell’uomo in quanto creatura, costantemente tentata dal peccato, fragile. Non possiamo mai autoassolverci. E se suona ridicolo un magistrato che rivendica il suo altissimo senso dello Stato, stride chiunque ribadisca continuamente urbi et orbi di essere persona “perbene”. Al Mastella (ex) ministro della Giustizia (la Dike greca) che, giustamente, spesso ricorda la sua laurea in filosofia, ricordo come, a fondamento della cultura occidentale, ci sia un uomo che, accettando una sentenza ingiusta di morte, evocava la sacralità delle Leggi, sulle quali si fonda la possibilità stessa della vita civile (“politica”), esortando i discepoli al loro rispetto anche nel caso di cattiva o pessima applicazione.
«Umana actiones, non ridere, nec lugere, neque detestari, sed intelligere». Questo insegnava Baruch Spinoza. Lo sforzo di intelligenza cui siamo tenuti non può non partire da un riconoscimento di “correità” o di “corresponsabilità” di chi, in primis, dunque, colui che ora scrive, non avrebbe dovuto rassegnarsi all’esistente, e, dunque, degli intellettuali, dei giornalisti, della presunta “società civile”. Nessuno, o pochissimi, sono innocenti. E la destra che ora, come giusto, cavalca l’onda, non può dimenticare che non ha utilizzato metodi di governo diversi e che la delegittimazione della magistratura è il vero chiodo fisso del suo dominus, Silvio Berlusconi.
Il Caimano di Moretti si chiudeva con una scena tenebrosa: sostenitori del politico descritto nel film lanciavano bombe molotov contro i giudici che l’avevano condannato. Nell’ultima autodifesa il Caimano si appellava al consenso popolare contro il potere della magistratura, considerando l’investitura una “assoluzione” dalle leggi tout court. Ma poteva Moretti immaginare l’applauso proveniente dalle viscere che la Camera ha tributato al Ministro della Giustizia, il quale indicava nella magistratura un potere potenzialmente eversivo? Poteva immaginare che in quindici anni (dall’inizio degli anni Novanta ad oggi) la sinistra italiana facesse proprie le ragioni del berlusconismo, vedendo nella magistratura un pericolo per la democrazia? Dunque la vittoria del “Caimano”, vittoria culturale molto più che politica (e dunque destinata a lunga durata) è definitiva. Berlusconi potrà uscire di scena, ma la sua visione di che cosa è lo Stato e di quale debba essere il rapporto fra i suoi poteri, di cosa significhi essere eletti e rappresentare il “popolo, ha vinto.
Ciò che sto dicendo, evidentemente, prescinde dall’esito del procedimento giudiziario in atto nei confronti di vertici e alti esponenti dell’UDEUR. Idem dicasi per quanto riguarda Antonio Bassolino. Su questo deve pronunciarsi, e non può che pronunciarsi solo la magistratura. Ogni ingerenza – questo vale anche per i casi D’Alema-Forleo per intenderci – è, essa sì, devastante per la vita democratica del paese. Posso solo dire, da profano, che sembra molto difficile provare l’impianto accusatorio, il quale individua un sistema piuttosto che singole vicende di rilevanza penale. Ma al giudizio politico siamo chiamati, perché le intercettazioni su cui si fonda l’inchiesta – come le precedenti tutte, dalla Unipol a Ricucci, da Vittorio Emanuele di Savoia a Saccà-Berlusconi – aprono una squarcio angosciante sul degrado morale e politico (e linguistico!) dell’Italia, da Nord a Sud. Ne emerge un paese in cui il potere politico, costituito in casta funzionante per contiguità familiare o cooptazione, pervade ogni sfera “pubblica” mosso da un horror vacui per il quale nessun posto non può non essere lottizzato, spartito, in assoluto spregio a qualunque criterio di merito o capacità (come ha scritto Battista su queste pagine): questo vale per il posticino nella fiction televisiva ma anche per quello di ingegnere in una ente pubblico. E chi non accetta questa logica è spazzato via, come insegna il caso di Loretta Mussi, ottima manager che aveva reso il Rummo di Benevento un ospedale veramente “civile”, utilizzando per lo più criteri di capacità, e che per questo è stata mandata via, dopo essere stata messa sotto accusa in un consiglio comunale dall’intero centro-sinistra. Ne emerge un paese in cui la perpetuazione del potere (del partito, della famiglia, del mio potere) diventa fine in sé. Mastella appare disarmante proprio per la sua incapacità oggettiva di distinguere tra sfera privata, familiare e “res publica” (come, ad esempio, già l’inchiesta dell’«Espresso» di novembre sulla gestione de «Il Campanile» aveva mostrato). È il “familismo” di cui parlava la sociologia degli anni Sessanta a proposito del Sud. Lo stesso si può dire di Antonio Bassolino o di Ciriaco De Mita. I poteri in Campania si sono strutturati in modo di sorreggersi reciprocamente (per questo non appare casuale la contemporanea crisi del bassolinismo e quella del mastellismo), utilizzando il consenso di massa per distribuire incarichi, cooptare nell’amministrazione, creare posti di lavoro per le clientele ecc. Tutto questo senza minimamente calcolare costi e benefici. Perché (e ragiono machiavellicamente indossando panni non miei), se il fine fosse stato il bene dello Stato (del Comune, della Regione), forse si sarebbe potuto giustificare anche tutto, ma poiché il mezzo era diventato fine, abbiamo immondizia che ci sommerge, territori inquinati, camorra dilagante, ospedali inefficienti, appalti gonfiati e quant’altro.
Il centro-sinistra in Campania lascerà il deserto. Bassolino avrebbe già dovuto dimettersi da molte settimane. Su di lui – che abbiamo votato in questi anni sempre più disillusi – ricade la vergogna dei rifiuti. È stato quasi un sovrano “ab-solutus” (legibus?). Dovrebbe autoesiliarsi in perpetuo dalla politica. Si ridurrà, probabilmente, a fare il ras locale di qualche Elba perduta. L’UDEUR, questa è la mia analisi, uscirà senza grossi danni dall’inchiesta ma distrutto politicamente. So che è metafora frusta, ma ci aspetta una lunga traversata nel deserto. Ci aspettano anni in cui sono vietate le scorciatoie politiciste.

Giuseppe De Rita - nella brillante analisi svolta col suo CENSIS sull’Italia – afferma che esistono minoranze virtuose (nel mondo delle imprese, del volontariato sociale e culturale, nel mondo religioso), ma dispera che esse possano trovare in “questa” politica il collettore che le faccia diventare traino dell’intero paese. Ebbene, a maggior ragione l’analisi vale per il Sannio e la Campania. Le minoranze “virtuose” non possono più contare sulla politica. Non ci sono neanche più le illusioni palingenetiche dei primi anni Novanta. Abbiamo visto che, crollata la prima Repubblica, la seconda è stata in quasi tutto peggiore. Eliot scrisse una volta: «Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine». È rischioso illudersi di salvare qualche pezzo della storia che abbiamo alle spalle per ricominciare da lì. Dunque, nessuna illusione, nessuna scorciatoia. Ciascuno nel suo privato a livello culturale, a piccoli gruppi che – senza “centri direzionali” – cerchino di farsi rete a livello sociale, deve ricostruire le possibilità di una politica “onesta”, dove tale aggettivo indica non tanto, o non solo, il divieto di non fare interessi privati (che non consistono solo nell’arricchimento) nell’esercizio della cosa pubblica, quanto, soprattutto l’agire responsabile, la consapevolezza che “rappresentare” significa agire per il bene collettivo, e cioè tutelare la terra, l’acqua e l’aria, garantire che l’ospedale guarisca e non uccida con medici e manager capaci piuttosto che amici, riprogettare le città in vista della “misura umana”, evitare ogni collusione con le associazioni criminali. Forse fra quindici o venti anni quel che ora chiamiamo ancora “sinistra” sarà pronta nuovamente per cimentarsi nell’amministrazione, senza farci vergognare di esserne parte o di averla votata.

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