mercoledì 31 ottobre 2012

"In quieta ricerca" VII

Bobby Falvella, socialista ed ecologista senex/puer, sempre vitalissimo e stimolante, ha letto il mio libro, ne ha scritto, come sempre in maniera essenziale. Lo ringrazio. Ha aggiunto, poi, su Facebook, una domanda: «La morte è cosa stupida e crudele: stupida perché distrugge preziose memorie e patrimoni di cultura faticosamente accumulati (miliardi di gigabyte), crudele perché spezza legami ed affetti, produce dolore e sofferenza. L’entità (che... avrebbe progettato ed organizzato questo incredibile disastro ecologico) può essere definita benigna ed intelligente? Non rispondere che il disegno divino non è conoscibile perché, invece, è chiarissimo e risulta (valutato con lo strumento della logica) stupido e crudele. Non rispondere che la logica non è tutto, perché, invece, è l’unico strumento di pensiero razionale che proprio il disegno divino ci... avrebbe assegnato».
Sostanzialmente le critiche che mi muove sono due:
1) coltivare il sogno di una prossima palingenesi sociale;
2) militare in formazioni politiche irrilevanti.
Quindi, una critica alla teoria e una alla prassi.
Alla prima critica rispondo che il mio pensiero si è nutrito negli anni di quella “corrente calda” (Bloch) della tradizione socialista/comunista, che prende avvio, nella mia lettura, dalle lotte contadine della Germania riformata. Nella “lunga durata”, il comunismo non è “scienza” (come pretese Marx) ma aspirazione morale alla giustizia, con un profondo radicamento “religioso”. Quella che Falvella definisce «palingenesi sociale» è la stella polare che deve guidare il nostro agire. Non una necessità “provvidenziale” o “immanente” della storia. Ma, per citare il mio maestro Fortini, la «Gerusalemme celeste» che ci permetta di cogliere l’imperfezione e l’ingiustizia radicale di questa civiltà terminale (ma che potrebbe anche non finire mai di finire…). L’attesa del “Regno di Dio” (che mai si realizzerà sulla terra), annunziato da Gesù in Palestina, è il prototipo di un annunzio che sprona all’azione: «Spianate le montagne, il Signore arriva».
Al secondo rilievo rispondo dicendo che, se ci troviamo di fronte ad un tempo “terminale”, come dice Marco Guzzi “apocalittico”, le strategie riformatrici non incidono, non intaccano minimamente le strutture malate e corrotte a livello sociale ed economico delle nostre civiltà. Però vorrei anche ricordare a Bobby che l’epigrafe scelta per il libro, dopo molti tentennamenti, dice di fare il possibile e sognare l’impossibile… Anche nel piccolo della mia realtà cittadina, non mi sono mai tirato indietro nel “fare”. Anche qui, però, reclamando, prima di tutto con me stesso, una radicalità che aspirasse a cambiamenti reali.
Infine, sulla questione “Dio”… Una tradizione aurea di pensiero, che parte da Plotino, mi ha insegnato che l’unico atteggiamento legittimo nei confronti di ciò che chiamiamo per convenzione “Dio” è la docta ignorantia. Non reclamo neanche il “sentimento” o la “fede” come organi di conoscenza del divino. Mi appello, invece, all’esistenza, contro ogni logica, del bene nel mondo. Perché, chiedo a Bobby, agisci moralmente? Perché ti preoccupi di piante, animali e uomini? Perché la sofferenza ti indigna? Io credo che il bene in te sia il segno visibile, questo sì, direi tangibile, che il Bene è, in un modo misterioso e combattuto, nel mondo. Questo è il mio Dio, che insieme a noi, attraverso di noi, diviene. Non credo nel Dio delle religioni rivelate, nel Dio onnipotente. Credo in un Dio impotente, crocifisso ogni giorno nelle sofferenze e nella morte. Per questo sento vicini nella fede persone come la Hillesum: «Non mi faccio molte illusioni su come le cose stiano veramente e rinuncio persino alla pretesa di aiutare gli altri, partirò sempre dal principio di aiutare Dio il più possibile e se questo mi riuscirà, bene, allora vuol dire che saprò esserci anche per gli altri».


P.S. 

Definisci i miei genitori, che hai conosciuto bene «ultrareazionari». Per amor di verità, vanno dette due cose. La prima è che erano democristiani convinti, in un tempo in cui, come ben sai, la DC era tutto e il contrario di tutto. La tua espressione si potrebbe equivocare e amplificare il senso del mio “tradimento” familiare e di classe… Ma, soprattutto, mi sta a cuore ribadire, come implicitamente nella dedica a mia madre del libro, che lei è stata la radice non solo del mio essere ma anche del mio pensiero e del mio agire. Da lei ho imparato il rispetto quasi religioso per gli umili, da cui naturalmente è scaturito quello che tu definisci “cristianocomunismo”. Senza mia madre e, aggiungo, senza mia nonna, non avrei mai, probabilmente, capito cosa sia la compassione.

lunedì 29 ottobre 2012

"In quieta ricerca" VI

In libreria In quieta ricerca di Nicola Sguera (Percorsi Editore, prefazione di Marco Guzzi). La ricerca non è affatto “quieta”, il linguaggio a volte è criptico, ma efficace.
A Benevento (enclave vaticana nel Regno di Napoli, secondo Pasquale Falvella nel 1825, nel 1974 al Referendum di Fanfani votò contro il divorzio … al 75 %!) si è verificato un miracolo di antropologia culturale: un filosofo comunista (nato da cattolicissimi genitori, ultrareazionari) predica la... decrescita economica, il culto dell’ambiente e la... ecosostenibilità (Gandhi e Latouche). 
E non basta: il professore Sguera (esule in patria, come Dante Alighieri) pretende addirittura di inculcare... rigore e coerenza morale in studenti e concittadini. Impresa pressoché disperata nella cattolicissima Italia. 
Politicamente Nicola Sguera è impegnato nella estrema sinistra: da buon cristianocomunista, quale si professa, coltiva il sogno di una prossima, improbabile palingenesi sociale e contesta le demoplutocratiche democrazie occidentali. 
Classico esempio di filosofo meridionale che salva la propria coscienza di intellettuale militando in minuscole, inconcludenti nicchie politiche... laddove il suo stimolante contributo/testimonianza sarebbe di preziosissimo aiuto dentro un grande partito di massa (Gramsci).


Bobby Falvella



Bobby Falvella (Napoli, 1933), architetto e ambientalista, da anni scrive sul suo blog, eco-news, di territorio e ambiente.

sabato 27 ottobre 2012

"In quieta ricerca" V

La scelta delle persone che avrebbero discusso di In quieta ricerca alla sua prima presentazione ovviamente non è stata casuale, ma naturale conclusione (provvisoria) di un dialogo che continua con tre persone molto diverse da loro e anche da me, i cui interventi ho voluto pubblicare in Di soglia in soglia, per continuare il nostro fecondo dialogo. È per questo che vorrei puntualizzare alcune cose, essendomi limitato in quella sede a ringraziare tutti i presenti, volendo riflettere a freddo sulle loro sollecitazioni. Con Luca Rando abbiamo condiviso tanto, tantissimo, anche a livello intellettuale, sebbene ad un certo punto, direi in coincidenza con il mio ritorno (problematico e inquieto) alla fede. Dal suo intervento traspare la conoscenza minuta dei vari passaggi che hanno scandito il mio percorso. Ha fatto una lettura lucida del libro ed preziosissima per chi volesse capirne le strutture portanti. Luca sa che la riflessione sulla scuola è quasi assente perché l’auspicio è quello di tornarci in maniera approfondita in futuro. 

Amerigo Ciervo ha voluto, invece, con una composizione “musicale” che ben si addice alle sue competenze, omaggiarmi in maniera ellittica. Ha focalizzato, infatti, quello che io ritengo uno dei nuclei ispiratori di ciò che vado scrivendo: cristianamente vorrei chiamarla “speranza”, laicamente “utopia” (con i distinguo, presenti nel libro, operati da Jonas). Per questo ha evocato un filosofo a me molto caro, Ernst Bloch, citando il quale aprii il primo incontro con Marco Guzzi alla Sala del Reduce il 3 aprile del 1993. Era esattamente la stessa frase, accostandola ad una frase di Ernesto Buonaiuti, che evocava «il vomere della speranza», smarrito dal pensiero cristiano. Mi accomuna ad Amerigo la volontà di rimanere fedele al messaggio cristiano, alla virtù della speranza, ma coniugandola all’utopia concreta, che si sforza non di raddrizzare «il legno storto dell’umanità», di portare il paradiso in terra, bensì di migliorare quel lembo di mondo e di umanità che ci viene assegnato, senza mai rassegnarsi alla ineluttabilità del male, «con la testa fra le nuvole e i piedi ben piantati per terra». 
Sapevo già che dei tre l’intervento più “critico” sarebbe stato quello di Gaetano Cantone. Non ha deluso le mie attese. Ci sono parti dell’intervento di Gaetano che condivido integralmente, e che sono state oggetto di discussione in questi anni di attività comuni, soprattutto all’interno de “i Giannoniani”. In particolare, il rifiuto del mito del progresso e della ricostruzione dell’arte e della cultura in base a tale criterio fallace, o la sua notazione sulla vocazione alla “stupefazione”. 
Sono tre le questioni, mi pare, problematiche che Gaetano mi pone: 
1) i maestri che cito non sarebbero affatto “eretici”; 
2) c’è un eccesso di “sentimento” e di “soggettività” nelle cose che scrivo; 
3) c’è una “sintesi” pacificante finale. 
Sono rilievi, come sempre, di grande intelligenza. Provo a rispondere. 
L’eresia dei miei maestri è molto diversificata: i “religiosi” evocati sono tutti eterodossi rispetto alla propria tradizione. Bonhoeffer nelle lettere dal carcere si spinge a parlare di un mondo totalmente secolarizzato, in cui anche il cristiano deve vivere «etsi Deus non daretur». La Weil contamina grecità e cristianesimo, affascinata dal catarismo e dalla gnosi, elaborando, nella lettera a padre Perrin, un’idea estremamente sincretica della fede. La Hillesum è una “teodidatta” fuori da qualunque schema religioso tradizionale. Pomilio riprende la dottrina (eretica) del quinto vangelo. Illich, sospeso dalle sue funzioni sacerdotali, teorizza la società moderna come corruzione dell’originale messaggio gesuano. Non riesco ad immaginare eresie più esplosive di queste. Hammarskjöld, tra i “religiosi”, è l’unico che sembra essere ortodosso, rispetto alla sua fede riformata. La sua “eresia” mi è apparsa però nella volontà, tutta antimoderna, di tenere insieme la pratica politica, ai massimi livelli, e la fede vissuta «in segreto», una fede tormentata e piena di dubbi. 
Dei “filosofi” direi che l’eresia di Heidegger è quella di avere, lui filosofo, auspicato la fine della filosofia e l’avvento di un pensiero postmetafisico. Mi pare che questa “eresia” sia stata normalizzata in primis da molti suoi discepoli o sedicenti prosecutori. E infatti la filosofia sopravvive floridamente come disciplina accademica, spesso esercitata sugli stessi testi del maestro che ne reclamava il superamento. Anders è autore eretico per una pluralità di ragioni: l’aver continuamente transitato tra impegno teorico e impegno civile, la pluralità degli stili scelti. Autore antiaccademico per eccellenza, pochissimo amato dalla cultura italiana (fatto salvo il meritorio lavoro di «Linea d’ombra»), totalmente assente dai manuali, malgrado la grandezza del suo capolavoro. Kuhn, per quanto sicuramente la sua opera sia stata oramai metabolizzata, mi appare ancora dotato di forza dirompente rispetto alle pretese di una tecnoscienza immemore della propria storia e fiduciosa in uno sviluppo lineare della conoscenza come della civiltà. Di Morin, insieme a Gaetano, ammiro la forza, tutt’ora eretica a mio avviso, di rompere gli argini disciplinari, di reclamare un sapere non totalizzante (di stampo dialettico) ma complesso. Latouche e Revelli sono autori che hanno messo in crisi molti dogmi della cultura di “sinistra”, oggetto di scandalo per molti studiosi (in particolare economisti) che considerano le loro posizioni addirittura reazionarie. Tarkovskij e Steiner, infine, sono eretici rispetto ai generi da loro praticati, reclamando con le loro opere l’assoluto, parola pronunziata con pudore o disprezzo dall’arte e dalla cultura contemporanea. 
Il secondo rilievo di Gaetano è assolutamente corretto. Nella mia scrittura c’è una forte carica “sentimentale” e soggettiva. Lo considero un retaggio di quelle “pratiche della differenza”, che il pensiero femminile ha contributo a diffondere, e che mi ha permesso di sanare, almeno dal mio punto di vista, la lacerante contraddizione fra “passione e ideologia”. Qui credo che abbia un peso non indifferente la differenza generazionale, la cesura culturale che si potrebbe collocare nella seconda metà degli anni Ottanta. 
Sul terzo rilievo, invece, dissento. Non solo perché, evidentemente, la mia ricerca è davvero “inquieta”, senza fine, ma perché, seppur faticosamente e superando una naturale tendenza irenica, ho maturato una visione che altrove ho definito “eraclitea” del reale. E mi pare sia sfuggito a Gaetano il peso che hanno le epigrafi di tutte le sezioni, versi di quel René Char che, unico tra i grandi poeti del Novecento, cerca di cantare questa dimensione dialettica della realtà, ma senza sintesi finale. La sintesi, sia delle nostre biografie individuali sia dei grandi processi storici, sarà sempre fatta “altrove”. La mia passione per il Novecento e la sua cultura nasce anche dall’accettazione del “frammento” come necessità di un tempo che non può più aspirare a sintesi. Ci sono parole di Bonhoeffer, che cito nel libro, assolutamente illuminanti. 
È sempre un grande onore sapere che qualcuno ha letto con attenzione quanto abbiamo scritto. Quando per queste persone si prova stima incondizionata l’onore raddoppia. E per questo, ancora una volta, li ringrazio.

giovedì 25 ottobre 2012

"In quieta ricerca"* IV

Il libro di Nicola Sguera si sviluppa in quattro sezioni, solo apparentemente distinte e parzialmente interagenti: i maestri eretici (davvero? perché?), la storia (le storie, la politica, la tecnica, la bioetica,...), il sacro (le conversioni) e la poesia (ovvero del linguaggio).
A.1. Nel libro tutto si tiene per via di “conciliazione”. Autori diversi per cultura e scelte, pagine che parlano di libri e che hanno segnato il percorso di ricerca di Sguera si “incontrano” nel terreno della definizione di eresia rispetto alle culture dominanti coeve o dinanzi agli schemi sovrapponibili del pensiero accademico dominante; alcuni di questi autori son stati, per così dire, “ininfluenti” durante la loro vita o conosciuti ed apprezzati da un ristretto nucleo di amici ed estimatori: noi li abbiamo letti ed apprezzati dopo lo svolgimento drammatico ed intenso delle loro vite sebbene appartenessero pienamente tutti all’evolversi del ’900. Altri tra gli autori “indagati” (Heidegger, Morin,...) hanno avuto ed hanno un’influenza dibattuta e problematica, lungi dal sedare tensioni o vere e proprie tenzoni (il nazismo nell’uomo Heidegger, ad esempio). 
Da tutti gli autori “raccontati” Sguera cerca conferme per un approccio personale (ai limiti dell’individualistico) alla tenuta di un pensiero plurale (aperto, colloquiante, dedito al cambiamento,...) annettendo, relazionando o componendo un filo rosso che sia in grado di dare voce agli utopisti, ai profetanti, ai dolenti o ai dubbiosi: sembra di trovarvi un sotterraneo (ma inconfessato) modus di placare in “sistema” le diversità, pacificandone le identità.
A.2. Su altro fronte, anche senza voler insistervi troppo, è posta la questione irrisolta della formazione culturale (ed esistenziale, nel complesso) di ciascun individuo: dalle accademie (di tutti i tempi e di tutte le modalità) si deve andar via; insomma lasciare i solchi ereditati o consolatori e avventurarsi nel grande mare delle realtà diverse avendo come principale obiettivo il “radicare il sapere nelle nostre vite”.
A.3. Ritengo che per far questo bisognerà tornare nelle contraddizioni che il Novecento ha lasciato irrisolte, anzi cambiare anche punto di vista soprattutto dinanzi a quanto abbiamo dato per scontato e “veritiero” in modo assoluto; lasciare le apoditticità ideologiche che hanno condizionato popoli ed individui per una ricerca (inquieta, molto inquieta) degli elementi emancipanti e liberatori per ciascun individuo. Il Novecento con le sue avanguardie è stato ipostatizzato fin troppo spesso come portatore di progresso (la guerra invocata dai futuristi come “igiene del mondo”) lasciando un marchio di orrore sulla carne dei popoli (il secolo veloce ed anche della shoah
A.3b. Credo sia necessario abbattere quella sorta di “evoluzionismo darwiniano” su cui, ad esempio, si reggono al fondo le varie storie sulla creatività del XIX e XX sec.: eccessiva la dose di interdipendenza conflittuale, spacciata per dialettica, tra l’uno e l’altro dei movimenti artistici, ciascuno dei quali derivante per ostativa filiazione (con l’ovvia freudiana uccisione dell’avo) dal precedente. Il linearismo millenaristico si è nascosto spesso sotto il paludamento di “nuovo”. Ciò premesso il secolo scorso ha inseguito l’idea di bellezza, ma ne ha presto abbandonato la fattualità, negatole quindi una destinazione ed un ruolo nella formazione del pensiero, con tutte le gravi conseguenze verificatesi tristemente proprio nella fase della cosiddetta “civiltà dell’immagine” (responsabili i filosofi che discettano di etica ed estetica come discipline difformi, soprattutto se si privilegia l’autonomizzazione dell’estetico che vedo pericolosa pur non essendo un lukacsiano).
A.3c. Stinta come dopo il diluvio, relegata in perenni soste ancillari nelle cucine del tardocapitalismo e resa materia inerte da un pensiero che pur abusando delle parole non le conosce davvero nella loro densità identitaria, la bellezza è negata di fatto dalla “tecnica” - e dai miti che la fondano in un ruolo di super partes - nel rapporto con la mutazione della realtà e, soprattutto, dell’idea di realtà (ancora responsabili i filosofi troppo occupati dal “proprio” ricettario). La “tecnica” ha costruito (politicamente), realizzato (economicamente) ed assolto (ideologicamente) perfino i genocidi in virtù del rapporto costi-benefici: l’essere è denotato per la propria tipologia economica, non essendo la tecnica estranea al potere o oggettivamente solitaria nel lungo percorso di conquista perenne della realtà nota od ignota. 
A.4. Infine, il linguaggio è una dirimente questione nel rapporto tra gli individui. I contesti mutano e i linguaggi sembrano rincorrere gli accomodamenti (in filosofia, come in arte o nella comunicazione): a perseguire linguaggi di incantamento o di affabulazione sembrano destinati solo i santi, gli artisti ed i poeti, al resto dell’umanità “restebbero” i linguaggi della connessione. Eppure tra la fine del secolo scorso e nel primo decennio di questo secolo abbiamo sperimentato la commistione, l’interpolazione, la coesistenza ed anche la dispersione dei linguaggi (annettendo le “due culture” d’un tempo in ampi laboratori) (in una formula direi che la commistione costituirà la ragione identitaria della connessione, altrimenti che mi connetto a fare se non rapporto a me la diversità dell’altro, con tutto quel che segue?). 
A.5. Il sacro in Nicola Sguera è costante interrogazione in filiazione culturale, “sentimentale” (per via di passione) ed aperto alla speranza: lungo l’albero del sacro s’inerpica il progetto esistenziale, le ragioni morali che sorreggono l’operato di un uomo e le sue scelte (il caso di Bonhoeffer). (Il sacro insegue Nicola, lo scova spesso nella terribile vita, lo costringe ad una lotta, rimette in circolo eredità e scelte dell’età pensante, ponendo in difficoltà qualsiasi soglia critica dinanzi al senso stesso della vita). 
In questo ambito tutto si tiene e tutto torna al medesimo desco: l’io declinato non in solitudine (anche se in Nicola tende a debordare, invadendo le ragioni del fare, sovrapponendosi alla percezione condivisibile della mutevolezza come decantato “chimico-poetico” dell’io), gli altri accolti in reciprocità e gli scenari delineati con rigore (l’imperium che ha radicamenti lontani). (Qui, nel sacro vi sono distanze che io e Nicola tentiamo di colmare in molte occasioni, evidentemente senza riuscirvi ancora, ma nutriamo “speranza”)
A.6. Tutto l’impegno della conoscenza va ascritto al senso della stupefazione: essa annette e rivolta, sconquassa e mette in circolo relazioni di senso, spesso mescola le sensazioni alle certezze; in altre parole rimette in discussione l’accertato (burocratico) delle nostre esistenze, condannandoci al dubbio (che non è ritenuta una qualità morale nei nostri tempi). (Ancora: forse saremo sgombri da assiomi e portatori di arsure non sopite se la stupefazione prende il ruolo che le compete nelle nostre vite). Per via di stupefazione si giunge all’appropriazione: l’interiorità diviene così il solo terreno di “cultura” per la qualità umana (questione che non comporta infantili deviazioni dell’io protagonista; siamo creature” dinanzi al mondo, siamo nel e del mondo ma non “il” mondo; l’eccesso del sé rimanda alla patologia della supremazia).
Ogni essere umano si impegna quando “sente” e “parla” del sé (quando giunge al pensiero poetante): mette in discussione molto e molto altrettanto insegue nel dare senso alle proprie scelte da cui discende quello struggimento (sehnsucht) per l’incompiutezza e la “nostalgia” dell’incorrotto (dell’Andrej Rublëv di Tarkovskij prediligo l’episodio in cui Boriska, il giovane figlio d’un costruttore di campane senza “eredità” sapienziali, gioca la propria partita esistenziale con la coraggiosa sfrontatezza del poiein).

Gaetano Cantone

Rielaborazione dell'intervento tenuto il 13 ottobre al Teatro De Simone. L'immagine è una tempera su carta di Cantone dal titolo "Angeli metafisici n. 97"

lunedì 15 ottobre 2012

"In quieta ricerca" III

La presentazione di un libro mette in campo, sempre, una sua ben codificata ritualità. 
C’è l’obbligo, come per i defunti, di dire bene: «de mortuis, nihil nisi bonum» (1). 
Se, allora, ci rappresenteremo i libri come “persone care defunte” le presentazioni potrebbero diventare una grande seduta di lamento funebre, nel corso della quale alcune prèfiche – nel nostro caso, vi assicuro, non professionali – si preoccupano di raccontare – evitando ovviamente lo stile cantato dei lamenti simili a quelli riportati nel Sud e magia di Ernesto De Martino - le mirabili imprese e le qualità del morto. Quest’ultime, sovente, anche nascoste. Come nel canto – che si ritrova in un nostro disco che so molto amato da Nicola – di Revolio-Gregorio ammazzato dai fratelli della sua donna e pianto dalla madre. 
C’è poi l’immagine della parola scritta che ci giunge da uno dei dialoghi più belli della nostra tradizione filosofica, il Fedro platonico: 

«Perché, o Fedro, questo ha di terribile la scrittura, simile, per la verità, alla pittura: infatti le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive (òs zonta) , ma se domandi loro qualcosa, se ne stanno zitte, chiuse in un solenne silenzio. E così fanno anche i discorsi (tautòn dè kai oi lògoi)». 

Questo passaggio platonico mi capita di collegarlo – devo ammettere un po’ sacrilegamente, o, se volete, per una confusione o mescolanza di registri - per la quale cosa chiedo anticipatamente scusa; anzi proclamo a gran voce: absit iniuria verbis - a un altro testo – quest’ultimo non filosofico – di un grande autore del teatro napoletano che, se venisse prosciugato del folklorismo manieristico di certe rappresentazioni dialettali, tra l’altro molto amate da gran parte della borghesia di questa città, ci apparirebbe come uno straordinario autore di respiro europeo. 
Nell’opera ’Na Santarella di Eduardo Scarpetta un marchesino grottescamente macchiettistico, Celestino Sparice, racconta dell’ostinazione di classe della marchesa sua madre nel non voler dare il consenso al suo legame con una canzonettista, ostinazione che la porta, dopo un violento litigio, a chiudere il figlio nel salotto: 

«dove stanno tutti i ritratti a olio dei nostri antenati… io mi misi ’na paura che tu non puoi credere… embé, e già! Pecché chille so’ a grandezza naturale, guerrieri, magistrati, cardinali… ci stava specialmente ‘o nonno che pareva che muoveva l’uocchie… quant’era brutto ‘o nonno! Io alluccaie, chiagnette, ma niente, nessuno me deva udienza». 

I libri, allora, come figure silenziose di quadri, come ritratti muti di antichi parenti. In ogni caso simili ai morti. 
C’è ancora un’altra motivazione. È molto probabile che, tra qualche mese, la cerimonia dovrà ripetersi. Questa volta per un “morto” che mi appartiene e – sicuramente – i parenti e gli amici presenti saranno gli stessi. 
Sicché la nostra potrebbe apparire una compagnia di giro. In realtà si sta sperimentando la relazione della rete. Occorre fare rete. Credo che di questo, prima di ogni altro, abbia bisogno la cultura di questa città. Non di intellettuali monadi “senza porte e senza finestre”. Anche perché come sostiene Thomas Merton: nessun uomo è un’isola (2): 

«Quello che faccio viene dunque fatto per gli altri, con loro e da loro: quello che essi fanno è fatto in me, da me e per me. Ma ad ognuno di noi rimane la responsabilità della parte che egli ha nella vita dell’intero corpo». 

È quindi difficile poter parlare male di un testo, soprattutto se il libro è stato scritto da una persona con la quale si intrattengono rapporti di saldissima e anche affettuosa amicizia. Con cui si condividono molte cose. Con la quale si lavora nella stessa scuola (3). Spesso con le tesi di Nicola non ci si ritrova. Ma la persona è la stessa con la quale stiamo cercando di costruire una libera scuola di filosofia e un nuovo progetto politico. 
Insomma. Si sarà capito. Non parlerò male di Nicola Sguera. Non parlerò del suo libro perché – mi ripeterò e nonostante il Fedro – i libri vanno letti. Magari lasciati e poi ripresi. Abbandonati per un po’ ma mai lasciati per sempre. Cercherò allora di comunicare a voi alcune brevi, sintetiche riflessioni che la lettura delle pagine di Sguera hanno suscitato in me. 
Io non sono un filosofo (un “Ganimede della verità”), né uno storico della filosofia. Da una trentina d’anni (e, grazie alla gentilissima signora Fornero, credo, ancora per sei – sette anni) insegno più filosofia e storia nei licei. Il mio problema, per il futuro, sarà quello di non dire una quantità di fesserie oltre un limite accettabilmente fisiologico. Tra le altre cose, mi sforzo di far comprendere ai giovani una verità che va facendosi sempre più difficile: che i libri vanno letti. Noi siamo qui per invitarvi a comprare e a leggere il libro. Aggiungerò che è un libro scritto bene. 
Con la scelta tutta heideggeriana – ovviamente – della poesia pensante e del pensiero poetante, Nicola ci prende per mano, come la “Giustizia che molto punisce” o, se volete, “preposta alle pene” (Dike polùpoinos) del nostro quasi compaesano Parmenide e ci guida attraverso i pensieri profondi che hanno accompagnato la sua vita (o le sue vite). Il percorso si sviluppa attraverso quattro snodi: il racconto dei suoi maestri eretici, un po’ di acute riflessioni su alcune questioni per noi epocali, una riflessione sulla spiritualità e, infine, il grande amore di Nicola, ossia la poesia. 
Alcuni degli eretici li condivido con lui. Penso a Bonhoeffer – ampiamente presente e citato nel mio lavoro di laurea, il cui ultimo capitolo s’intitolò “Fede e religione”. Un po’ come il suo “Spiritualità e religione”. Penso a Simone Weil che ho molto usato per il nostro ultimo spettacolo. Penso a Revelli – benché io sia legato al ricordo del padre, il partigiano Nuto che con il bellissimo L’anello forte confermò in noi, che continuavamo a raccogliere canti popolari durante gli anni ottanta, l’importanza della storia orale. Penso, infine, a Edgar Morin e alla sua riscrittura dei codici fondamentali di ciò che dovrebbe essere la scuola oggi. La riforma del pensiero sarà paradigmatica, non programmatica e occorre riscoprire il valore dell’eros «che permette di tenere a bada il piacere legato al potere, a vantaggio del piacere legato al dono». Altro che competizione e concorso a premi per i migliori che – di solito – arrivano dalle realtà sociali più solide, meglio sistemate economicamente e in grado di pagarsi tutto ciò di cui si deve disporre per competere. E’ necessario che si cominci a ridirlo con forza dopo la sbornia neoliberistica di quest’anni che ci ha lasciato inebetiti, Proprio come se avessimo bevuto vino di pessima qualità. Che, fra l’altro, vogliono continuare a servirci. 
Scrive Paul Valéry: «Quel che si può rimproverare alla filosofia è che essa non serve a niente, mentre dà a credere di poter servire a tutto e in tutto – scrive Paul Valéry. Sicché si possono concepire due modi di Riforma filosofica: l’uno che sarebbe quello di preavvertire che essa non servirà a niente – e ciò equivarrà a dirigerla verso la condizione di un’arte, l’altro modo sarebbe quello al contrario, di incitarla a essere utilizzabile e di tentare di renderla tale ricercandone le condizioni». 
Mi pare di poter dire che la scelta di Nicola vada verso questa seconda direzione sebbene egli si affanni a dire che lui si augurerebbe la fine della filosofia almeno - credo – nella forma che si è costruita nella civiltà occidentale. 
La lettura del libro di Nicola – ma anche parlare con lui – mi ha riportato alla mente a un’esperienza cui demmo vita a Moiano, agli inizi degli anni Settanta. Eravamo giovani, di provincia e di paese. Demmo vita a un gruppo che chiamammo “Utopia”. Alcuni di noi avevano cominciato a sentir parlare di Ernst Bloch, il filosofo dell’utopia e del principio-speranza. Ed è Bloch che vorrei ricordare stasera. Credo a Nicola farà piacere. 
Del filosofo vorrei evidenziare alcuni elementi che, al di là delle appartenenze più o meno scontate e da leggere nei contesti, a me sembrano vicini. 
Bloch è anch’esso, in buona sostanza, un filosofo antiaccademico. («Mi mantenni piuttosto distante dalla filosofia delle università. Sono un filosofo che abita la propria costruzione filosofica»). Ha origini ebraiche. La sua esperienza muove dall’esperienza dell’oscuramento (Die Okkulten):

«Troppi vivono nel deserto e nel grigiore. Oppressi dalla cura esterna, senza avere o potere esperire vitalmente qualcosa. L’amore è sparito o è finito male, l’esserci non ha neppure avuto inizio o è diventato rapidamente un mucchio di cenere da cui non si leva più nessuna scintilla. L’intimo contegno, il filone più lontano per il quale vale la pena vivere è scomparso. La stolta tristezza degli animali, delle creature senza prospettiva si è così diffusa in moltissimi uomini. Mai gravò una quotidianità altrettanto priva di luce». 

Certo, «se si vuole essere un bue, naturalmente si può voltare la schiena ai tormenti dell’umanità e badare solo alla propria pelle», scriveva Marx a Siegfried Meyer. 
In un certo modo noi viviamo combattuti. 
Da una parte la consapevolezza kantiana che dal legno storto dell’umanità non si è mai cavato niente di dritto, dall’altra avvertiamo una spinta a sperare, per cui si tratta di imparare a sperare, respingendo, con Bloch, «una vita da cane (Hundeleben) che si sente solo passivamente gettata nel mondo, in una situazione incomprensibile, anzi riconosciuta come miserabile». 
Eppure la concezione contemporanea dell’utopia manifesta un’evidente ispirazione rousseauiano-kantiana perché fu proprio Kant a fornire una fondazione concettuale della funzione dell’utopia nella storia. 
La fondazione kantiana si basa sulla funzione “regolativa” delle idee trascendentali. Le idee della ragione, pur se non costitutive dell’esperienza, orientano e guidano il mondo fenomenico verso mete transfenomeniche e ultramondane, in tal modo imponendo il progressivo affermarsi, nella storia, del diritto sulla forza, della pace universale perpetua sul «bellum omnium contra omnes» di Hobbes. «Il dolce sogno vagheggiato dai filosofi», come Kant definisce la sua opera utopica del 1795 (Zum ewigen Frieden), il cui titolo ricava ironicamente da un’iscrizione cimiteriale. 
E nel Settecento l’utopia è sempre e ancora intesa come una «région qui n’a point de lieu, un pays imaginaire» e, tre anni dopo la pubblicazione dell’opera kantiana, nel Dictionnaire de l’Académie, definito “plan de gouvernement imaginaire. «Un archivio delle quadrature de’ cerchi», per dirla con il napoletano Genovesi. 
Ma qual è il valore dell’utopia, se l’utopia ha un valore? 
Bloch propone una nuova filosofia che fugge la cosiddetta «malìa dell’anamnesi» platonica (la conoscenza solo come ricordo, un pensiero che esclude il presente perché guarda solo al passato e tradisce il futuro) e che avverte fortemente il peso della tradizione del messianismo ebraico. 
Vi vorrei ricordare, a questo proposito, i versi di un celebre canto natalizio di Alfonso Maria de’ Liguori, il santo vescovo di Sant’Agata de’ Goti che noi, da bambini, cantavamo durante le cerimonie di Natale: 

Nun c’erano nemmice pe’ la terra
La pecora pasceva co’ lione 
C’ ’o caprette se vedette 
’o liuparde pazzeà 
l’urzo e ’o vetiello 
e co lu lupo ’npace ’o pecoriello. 

La pastorale natalizia alfonsiana è una traduzione, in una bellissima lingua napoletana, una traduzione quasi a calco, di Isaia 11, 6-7: 

habitabit lupus cum agno
et pardus cum hedo accubàbit
vitulus et leo et ovis simul morabùntur. 

Friedrich Waismann, filosofo austriaco, matematico e logico del circolo di Vienna, definisce il filosofo come «colui che percepisce dei crepacci nascosti nella struttura dei nostri concetti laddove altri vedono solo il levigato sentiero dei luoghi comuni davanti a loro». 
Ma per percepire i crepacci occorrerà possedere l’idea di una struttura assoluta e perfetta. 
Quale funzione, allora, per l’utopia? Non è possibile più sognare? A me sembra che l’utopia, oggi, possa avere la stessa funzione che hanno avuto spesso le grandi ricerche etnologiche, una sorta di autentica via crucis della cultura moderna che, come Ernesto De Martino insegna, ci hanno spinto alla consapevolezza dell’importanza che anche per l’Occidente di oggi hanno l’arcaico e il mitico, e non già come di una fase superata di un’immaginaria storia umana linearmente percorrente il suo cammino trionfale. 
Sicché l’umanesimo etnologico, prodotto di tali ricerche, individua come suo percorso proprio «la sfida del culturalmente altro», si lascia travolgere dallo scandaloso incontro con umanità differenti, accetta di giocare tutto il proprio destino sul rimorso davanti al fratello separato e alla diaspora, alla dispersione delle culture del nostro mondo. 
Quando abbiamo ricercato i canti della nostra terra, mediante quest’incontro sul terreno con comunità viventi, ci siamo esposti deliberatamente all’oltraggio delle memorie culturali più care, le abbiamo messe in gioco. 
I “barbari” – e vi prego di credere che ci sono quattro paia di virgolette a racchiudere questa parola - che vengono verso di noi ci portano un dono di cui noi abbiamo molto bisogno. E il dono va scambiato perché chi dà e non riceve e chi riceve e non dà si condanna a morire, come mostra Marcel Mauss nel suo Essai sur le don. 
Essi ci aiuteranno a scoprire la nostra umanità profonda. Conoscendo gli altri, impareremo a conoscere meglio noi stessi. L’uomo entra nel mondo etico quando cessa di pensare l’altro come un “non-io” e lo riconosce come un “tu”, quindi come una interiorità che si concede non per via di possesso ma come apertura reciproca. E qui è il valore positivo dell’utopia che, attraverso lo strumento del giudizio critico, agisce come forza propulsiva reale della storia. «La ragione non può fiorire senza speranza, così come la speranza non può parlare senza ragione» (die Vernunft kann nicht bluhen ohne Hoffnung, die Hoffnung nicht sprechen ohne Vernunft). 
L’utopia come “più-che-reale”, lungi dall’essere considerata un programma di governo, come «un’ulteriore quadratura del cerchio», dovrà servire come specchio impietoso per l’oscurità dell’oggi che ci tocca vivere. Il Front populaire è stata una coalizione di partiti politici di sinistra. Fu al governo tra il 1936 e il 1938. Due anni appena. Ma la legge – allora introdotta - che prevedeva i primi quindici giorni di ferie pagate ai lavoratori restò. 
Certo oggi viviamo un’epoca in cui questo riconoscersi appare particolarmente complesso e non sembra proprio tempo di utopie. 
Ma, e ritorniamo a Bloch, occorre guardare con ottimismo al futuro e agire in modo tale che alla sofferenza angosciante e senza vita del Venerdì santo possa succedere la Pasqua di Resurrezione. 
Con grande forza e con profonda speranza sapendo che «sui passaggi intermedi della nascita del nuovo c’è buio ma ciò non deve meravigliarci, perché ai piedi del faro non c’è luce». 


NOTE



1. Diogene Laerzio riferisce, nella Vita dei filosofi, questa sentenza a uno dei sette sapienti dell’antichità, Chilone di Sparta. 

2. Il titolo, ripreso da un passo del Devotions Upon Emergent Occasions (1624) del poeta John Donne («No man is an Iland, intire of it selfe; every man is a peece of the Continent, a part of the maine...»), vuole significare che ogni uomo è una componente integrante dell'umanità, una parte di un tutto. 

3. Ricordo quando – qualche anno fa – insieme demmo vita a un ciclostilato di dibattito e di proposte, destinato ai nostri colleghi del liceo che chiamammo socraticamente Il tafano.



Amerigo Ciervo



Amerigo Ciervo insegna filosofia e storia al Liceo Classico "P. Giannone". Negli anni Settanta è tra i fondatori de "I Musicalia". Al suo attivo numerosi libri dedicati all'etnomusicologia, alla storia e alla cultura popolare.

domenica 14 ottobre 2012

"In quieta ricerca" II


Premessa

Ho da 40 anni un rapporto con Nicola che definire amicale sarebbe riduttivo e anche fraterno non spiegherebbe pienamente i sentimenti che ci legano. Con lui ho frequentato la scuola elementare (La Salle, e in questo teatro ho anche fatto, all’epoca, una recita scolastica per poi, molti anni più tardi, svolgervi incontri con la rosa necessaria... – sono quindi in modo particolare, come anche Nicola, legato a questo luogo) ed ho poi con lui frequentato il liceo Giannone. Ho condiviso passioni (non quella dell’Inter anche se la condividono i miei figli), amori, gioie e lacrime. Ho anche, com’è giusto che sia, litigato. Tutti i momenti importanti della mia e della sua vita li abbiamo condivisi: la scrittura, le scoperte, la passione per la poesia, le nascite, il concorso per l’insegnamento (anche se per Storia e Filosofia mi sono tirato indietro). Siamo rimasti distanti solo rispetto al suo cammino spirituale, (e anche per questo, pur avendo una parte importante nel libro, non ne parlerò) ma non si può avere tutto dalla vita. Da 10 anni viviamo fisicamente distanti: lui è rimasto a Benevento, io sono andato via, a Potenza, dove ora vivo con la mia famiglia ed insegno, ma sempre pronto, per le cose importanti ad esserci, come so lui per me. Per questo quando mi ha dato da leggere il libro, specifico, come correttore di bozze, l’ho fatto con piacere, sia per leggere o rileggere scritti che già conoscevo, ma soprattutto perché mi affascina sempre e mi stimola alla riflessione quello che Nicola scrive, ed è così da sempre.
Perdonate questa premessa ma, come scrive anche Nicola nel libro, c’è la necessità di ancorare le cose che diciamo e scriviamo al nostro sangue e al nostro corpo, di “radicare quanto diciamo nelle nostre vite”. La scissione tra passione e ideologia, che era forte nei nostri vent’anni – e se devo dirla tutta la passione era la mia, la sua era invece ratio ed ideologia – la trovo nel libro venuta meno. La rigida ideologia si è contaminata col cuore, con la pratica quotidiana di educatore, di padre... Insomma, le cose che scrive, anche quelle al di fuori di questo libro, quelle del suo blog, prendono vita, non restano semplicemente belle parole. 

Politica: fare il possibile e desiderare l’impossibile

Torno alla ragione per cui sono qui, al libro. Vorrei soffermarmi su tre aspetti e partire dalla bella citazione in esergo di Gustav Landauer: «fare il possibile e desiderare l’impossibile». Proprio queste parole mi sembrano essere il centro propulsore del libro: nei maestri eretici, nel loro magistero, così come nell’analisi dei costumi del nostro tempo, la direzione intrapresa dalla riflessione di Nicola è fare tutto ciò che è in nostro potere per modificare uno stato di cose che ci ha condotto in fondo all’abisso e, nel contempo, desiderare – sognare – ciò che ancora non è visibile e forse neanche pensabile, per fare in modo che un domani (ma perché no anche oggi) accada. Questo è vero soprattutto nella sfera dell’agire politico, alla quale il pensiero dell’autore è sempre rivolto. Non il politico delle beghe quotidiane di partito, ma il politico della polis, della società, della piazza, della dimora, la casa in cui viviamo e quotidianamente agiamo. Responsabilità mi sembra essere la parola chiave: responsabilità di uno e di tutti verso la cosa pubblica che è poi responsabilità verso gli altri esseri viventi. Questa mi sembra una traccia per la scelta di maestri spesso tanto diversi. Tutti sono legati al principio della responsabilità, all’incontro/scontro con l’altro. Il pensiero degli autori affrontati diventa non una semplice riflessione, ma un cercare di mettere in pratica il loro pensiero, nel tentativo di creare “ponti”: ideali, nel senso di raggiungere tramite quelli una “salvezza” rispetto al nostro tempo devastato; e reali, nel senso di mettere in comunicazione e far dialogare categorie (filosofiche, scientifiche, letterarie) che spesso nella pratica quotidiana (nell’insegnamento) risultano scisse, chiuse nei loro ambiti particolaristici. Soltanto nell’incontro e nel dialogo, suggerisce Nicola, è possibile un futuro diverso, migliore. 
Notevole in questo senso mi sembrano gli interventi su Illich e Latouche (ma potrei citare anche quello su Gunther Anders), attraverso i quali viene proposto un rapporto nuovo, o meglio diverso, tra l’uomo e il suo ambiente naturale. Un rapporto che vuole ripensare l’Occidente e mettere in discussione i suoi valori/disvalori: scienza, tecnica, progresso; mercato, economia. Non rifiutando la scienza o la tecnica in sé ma una certa scienza, quella “prometeica”, e una certa tecnica, quella che contribuisce alla “obsolescenza dell’uomo”. Con quei maestri Nicola ripete che “soltanto una rottura con il sistema capitalistico, con il suo consumismo e il suo produttivismo, si può evitare la catastrofe”. Affidarsi all’utopia scientista rischia di separarci dalla realtà concreta. Nell’ultimo libro di Latouche, Per un’abbondanza frugale, l’autore riporta le ipotesi fantascientifiche del direttore di ricerca al CNRS e all’Istituto di astrofisica di Parigi che propone da un lato l’abbandono della terra , ormai danneggiata e degradata, verso un altro pianeta (ma questo solo per pochi prescelti) e dall’altra un insediamento sul fondo degli oceani, con la creazione magari di uomini acquatici. Il tutto molto simile al transumanesimo del guru americano R. Kurzweil che predica della creazione di un superuomo in grado di nutrirsi di rifiuti e sopportare radiazioni mortali. Conclude Latouche: «La fede irrazionale nella razionalità porta al delirio della ragione». 
C’è invece necessità di “strade di conversione” per iniziare a vivere meglio con meno, evitando il facile ragionamento che “tanto se non inquino io, c’è qualcun altro che lo fa...”. Conversione ecologica, conversione alla convivenza (sono termini di Alex Langer) mi sembra siano parole che ben spiegano il punto di vista dell’autore. Anche la copertina ci dice questa visione che è invito a riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (e l’andare lenti proprio del pensiero meridiano di Cassano appartiene a Nicola), attenuare, per raggiungere quell’abbondanza frugale di cui parla Latouche. Come scrive Langer ne Il viaggiatore leggero «Abbiamo bisogno di occasioni ed opportunità gratuite nella nostra vita, nella vita delle città e delle campagne. Può bastare anche poco: spazi per sedersi senza dover consumare, accesso alla natura, al mare, al verde, senza dover pagare il biglietto, una fontana pubblica con l’acqua buona alla portata di tutti, biciclette del Comune che si possono prendere in prestito e restituire, un mercatino di scambio dell’usato... In una società in cui tutto è diventato merce, e dove chi ha soldi può comperare e stare meglio, occorre la riabilitazione del “gratuito”, di ciò che si può usare ma non comperare».
Attento al presente ma cosciente del passato e aperto al possibile (secondo l’insegnamento di Illich), pur consapevole della precarietà e fragilità del nostro essere uomini (Non essendo che uomini è una poesia di Dylan Thomas cara a Nicola e citata nel libro), o forse proprio a partire da questa consapevolezza, da questa accettazione dalla fallibilità dell’essere umano, l’autore ci invita a ricercare la via dell’impegno. Un impegno non più legato o supportato da un grande progetto o da una ideologia, ma che parte dalla solidarietà, dall’ascolto verso l’altro. 
Se c’è polemica nel libro è quella contro l’egotismo del soggetto e la conseguente volatilizzazione del limite: ridurre tutto al soggetto e alla sua volontà di potenza, avendo come uno criterio l’espansione, una produttività infinita e senza misura. Apertura, presa di coscienza dei propri limiti (potrei citare il Camus dell’Uomo in rivolta...). È questo, mi sembra, l’uomo che emerge nel libro: quell’uomo “solidale” (non più un soldato (del lavoro, della militanza) ma un “civile”, dotato di strumenti incerti, e che rifiuta la scissione tra “passione e ideologia”) di cui parla Marco Revelli. 

La poesia: l’assente-presente

Il processo che ho cercato di tracciare (di cui parla Nicola nel libro) passa attraverso un cambiamento che è innanzitutto interiore e che per compiersi ha bisogno di uno sguardo diverso sulle cose e un ascolto diverso del mondo. Questo sguardo, questo ascolto, passano attraverso la poesia. Se guardiamo la prima parte del libro sembrerebbe che la poesia, sua passione originaria, abbia un ruolo marginale. Non è così: il libro, tutto, è attraversato dalla poesia. Sì, è vero, non ci sono poeti tra i maestri, almeno non direttamente, ma in realtà ogni pagina è intrisa del valore attribuito alla poesia: si parte dai rimandi (ad inizio di ogni sezione) a René Char. Proprio in questo teatro, l’anno scorso, io e Nicola abbiamo tenuto una lezione/lettura sul grande poeta e intellettuale francese. 
Perché Char forse meglio di tutti coglie la duplicità del percorso di Nicola: la poesia come ricerca d’un al di là nuziale (in cui cioè l’io individuale si coniuga, cioè distrugge la sua dimensione egotica attraverso l’azione di trasformazione del mondo), e poesia come azione vissuta nella condivisione tra uomini e donne in carne ed ossa. 
Nel nostro tempo, nel tempo della povertà, in un universo che ha ridotto l’informazione a merce è necessaria la poesia, e il ruolo della poesia consiste nel ricordare la grana dura e inassimilabile della parola (è una citazione da Valerio Magrelli). 
Oggi probabilmente Nicola è distante dal punto di partenza del 1992 (ma forse non tanto se sul n. 1 della rosa trovo già che il denominatore comune di quell’esperienza era l’amore per la poesia che aveva come direzione quella della contaminazione), ma all’inizio comunque fu la ricerca della grana dura della parola, quella che testimonia, contro la chiacchiera che la prostituisce (per dirla con Celan). Cosa voglio dire: voglio dire che Nicola non ha mai cessato di interrogarsi e di cercare un senso, attraverso anche l’ascolto, alla vita tramite la poesia, la poesia vera, quella che parla al cuore. 
La rosa necessaria, se mai riusciremo nel progetto di farne un libro con una scelta degli interventi presenti, ne rappresenta bene il percorso poetico: da Fortini (la poesia come fedeltà ad una tradizione e ad una verità, la poesia come parola da applicare) a D’Elia (la poesia come discorso vissuto, poesia che è in stretto rapporto con la vita, a cui cerca di ridare valore) a Guzzi (la poesia che testimonia, svela il mistero del reale nel suo continuo farsi), a Char fino ad arrivare oggi a Bonnefoy (la poesia come ascolto che annulla l’io egemonico), senza rinnegare il proprio passato ma procedendo per “accumulo”. 
E non è quindi casuale poi che la prefazione del libro sia di Marco Guzzi (l’autore che credo l’abbia più segnato tra quelli conosciuti, potrei dire quello della “svolta”), e che ci sia un’intera sezione, la IV, dedicata alla poesia. 
Se devo dirla tutta, il discorso di Nicola non mi convince totalmente rispetto alla poesia come luogo originario della parola e del possibile “s-velamento” o “ri-velamento”. Non riesco ad amare (comprendere forse) alcuni testi di Bonnefoy (ma anche di Celan e Char...). Sono legato ad una poesia materica, che si contamina col mondo. Non mi trovo compiutamente in queste parole che leggo nel testo: «La poesia è la via della guarigione: la cura della radice dei sensi (vista, udito) malati. Il poeta è il cieco guarito, il sordo risanato. Finalmente il mondo visibile è invisibile, si manifesta nascondendosi, parla dal silenzio. Il poeta è il risanato che può risanare, colui che “ri-vela” il mondo con umiltà. Abitando, filialmente, il linguaggio, egli non lo usa come uno strumento». Non mi trovo perché le sento distanti dal mio modo di pensare la poesia, come detto. 
È comunque indubitabile che lungi dal rinnegare quanto fatto in precedenza, Nicola prenda letteralmente sul serio la poesia, ritenendola parte essenziale dell’uomo rinnovato. Scrive Char: «Poesia e azione, vasi ostinatamente comunicanti. La poesia punta la freccia che implica l’arco azione». L’idea è quella che la poesia possa contribuire alla trasformazione del mondo. Questo non è mai venuto meno in Nicola: come quando durante una lettura a piazza Roma invitava con calore i ragazzi presenti a leggere la poesia. 
Insomma cosa c’è tra l’uno (il sociale/politico) e l’altro (la poesia)? Mi piace riprendere le parole di un’intervista a Pasolini (altro daimon citato nel libro). Alla domanda di quali fossero i rapporti tra poesia e sentimento politico così Pasolini rispondeva: «Rapporti necessari non ne esistono, se si carica la poesia di valori assoluti e si svaluta la politica ad atto puramente pratico. Io vorrei ridurre la poesia entro limiti più umili e umani, e dare al sentimento politico una pienezza che investe l’intero modo di essere e di pensare». È probabile che per Nicola non sia esattamente così, almeno nel concetto della poesia, però credo che sia presente anche in lui questo tentativo di mettere in relazione due campi che sono quasi sempre separati tra loro. Illuminare con la poesia il politico, innalzare il politico con la poesia. 

L’opera da fare: la scuola

Se c’è un appunto che devo fare al testo è l’idea di scuola che a volte (non sempre) sembra emergere. Proprio in virtù del suo essere fuori dal tempo (libri e non tv e computer, poesia e non prosa, lentezza e non velocità) a me sembra che la scuola possa essere il luogo di una resistenza, di un altro mondo possibile, il centro di piccole comunità ermeneutiche che studiano i processi della realtà e propongono soluzioni, comunità che riflette senza la fretta che «l’onestade ad ogni atto dismaga», evitando, quindi continue rincorse verso tablet, computer, ecc.. Ma il pensiero sulla scuola, luogo in cui passiamo buona parte della nostra giornata, come lui stesso ammette, non è pienamente espresso: ci saranno altri momenti ed altri luoghi per intervenire. Nell’intanto mi sembrano importanti due aspetti qui solo accennati: il primo «le percezioni immediate dei testi» secondo l’indicazione di Steiner. Cioè un invito ad evitare le storie della letteratura, le critiche dei testi ma far parlare direttamente le parole degli autori, privilegiare la lettura diretta dei testi; il secondo, l’eros, «che e allo stesso tempo desiderio, piacere e amore, desiderio e piacere di trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi. [...] È ciò che in primo luogo può suscitare il desiderio, il piacere e l’amore dell’allievo e dello studente» (Morin). L’insegnamento richiede cuore, perché si apprende per via erotica, attraverso un coinvolgimento emotivo di chi ci sta di fronte. Ma mi permetta Nicola di dire che anche Dante, anche Petrarca possono essere strumenti di eros. Anch’essi sono in grado di promuovere quell’”intelligenza etica” che non fa riferimento esclusivamente ai principi della propria coscienza, o peggio ancora all’ambito limitato dei propri interessi, ma si fa carico delle esigenze della società (sono parole che Galimberti ripete in diversi suoi interventi). 
Sta di fatto, comunque, che anche questo terzo aspetto che ho cercato di evidenziare si collega alla poesia e al politico ed è forse il fine ultimo: la missione dell’educare passa attraverso l’insegnamento della responsabilità e dell’impegno richiesto, però, non solo a parole, ma attraverso la messa in mostra del proprio essere, attraverso la cura per la formazione del sentimento, attraverso una partecipazione emotiva. Non stando sopra ma nel mezzo, coinvolgendo, sollecitando, provocando. 

Conclusioni provvisorie

Nicola (e concludo) attraverso questo libro invita alla riflessione, invita ad esprimerci, a denunciare, ridando valore all’esempio e ad una parola non prostituita, non fine a se stessa. Alla fine, però, la conclusione non può che essere provvisoria. 
Il richiamo alla responsabilità, all’impegno, alla poesia come ascolto, significa imparare ad abitare con il limite, lottare contro l’ossessione dell’espansione. dell’illimitato, della Crescita ad ogni costo, nuovo idolo che ci sovrasta e ci rende tutti prigionieri e soli. Come scrive Franco Cassano in un articolo sul pensiero di Camus, «Chi corre sarà sempre e solo solitaire, mai solidaire, sia che guidi la corsa, sia che arranchi nelle retrovie».
Questa è, a mio giudizio, la traccia del libro, indicare una linea di resistenza alla passione per l’illimitato, all’idea che tutto sia manipolabile in nome dell’economia e della crescita. Una traccia, ripeto, non una soluzione, perché il fondo del libro è l’insegnamento che ci sono altre vie da esplorare, altri sentieri da percorrere nella costante ricerca di senso che è la nostra vita.

Luca Rando