domenica 16 dicembre 2012

"In quieta ricerca" XVI

Teresa Simeone ha onorato il mio libro di una lettura attentissima e, in molti passaggi, assolutamente empatica, della quale non posso che ringraziarla ancora. Nella seconda parte del suo intervento, muove tre rilievi, tutti meritevoli di un tentativo di risposta da parte mia. Considero gli incontri che sto portando avanti, grazie alla disponibilità di amici straordinari, “a partire dal libro” (non sul libro), un momento di “vaglio” del mio lavoro. La qualità degli interlocutori costringe a rileggere ciò che ho prodotto negli anni e a testarne la “resistenza”.
I tre rilievi di Teresa sono i seguenti:
1) come è possibile che, in un percorso in cui viene affermata l’ineludibilità del nesso vita-opera, Heidegger svolga un ruolo così centrale?
2) la poesia può essere un’alternativa alla “ragione critica”?
3) la scienza e la filosofia non sono in grado di “arginare” le pretese potenzialmente distruttive della tecnica?
Sulla prima questione, rinvio a quanto scritto negli anni sulla questione Heidegger-nazismo, in prima battuta, per non ripetermi. A Teresa, però, che solleva un problema preciso, rispondo, come ho già fatto nel libro, ricordando che un suo grande allievo, ebreo, ritenne altissima la sua speculazione malgrado la miseria morale dell’uomo. Non è risposta sufficiente. Me ne rendo conto. Ma l’alternativa sarebbe rinunziare al pensiero di Heidegger a causa della sua bassezza umana. Ovvero rinunziare ad un pensiero potentissimo, capace, se compreso, di mettere in discussione l’intero assetto della civiltà occidentale. Questo, sia ben chiaro, non implica l’accettazione “integrale” di Heidegger. Mentre per la maggior parte dei miei “maestri eretici”, la vita è parte integrante dell’opera (penso alla Weil, in primis, o a Bonhoeffer), in questo caso no. Inoltre, come pur scritto nell’introduzione del libro, proprio il corto circuito fra autori diversissimi dovrebbe colmare le evidenti “lacune” presenti in essi. Esempio concreto? Molti saggi del libro sono dedicati a questioni etiche. Voglio dire che, pur ritenendo Heidegger pensatore “assiale”, non ho mai pensato di seguirne sentieri ed esiti. Ritengo, però, il suo ripensamento dell’ontologia, il suo auspicio di un superamento della “filosofia” verso un “pensiero rammemorante”, la centralità affidata al linguaggio della “poesia” acquisizioni irrinunciabili per un pensiero che voglia essere realmente “trasformativo”.
Sul rapporto poesia-ragione critica, potrei rispondere a Teresa che solo l’accettazione del “paradigma” heideggeriano rende possibile capire in che senso e perché la “filosofia” deve finire. Anche qui rinvio ad altre riflessioni più analitiche in proposito. Quello che mi premeva, però, sottolineare dialogando con Teresa è che, a mio avviso, resta dentro un’idea di poesia che è tutta “soggettiva”, emotiva, sentimentale, poesia prodotta proprio dall’accettazione che altre siano le “vie” per giungere alla “verità”. Heidegger consente di ripensare questa deriva (che può essere invertita). La mia ricerca è “dentro” questa idea di poesia-pensiero, poesia capace di “vedere” la realtà in modo non tecnoscientifico. La qual cosa ha poco a che fare con il “sentimento”, visto, a partire almeno dal XVII secolo, come qualcosa di separato e contrapposto alla ragione. Lo sguardo della poesia non è “irrazionale”, ma intriso di una razionalità altra, non strumentale né critica. Questo, ovviamente, non deve impedirci di utilizzare tutti gli strumenti umani per capire la complessa realtà in cui siamo immersi. E per agire in essa trasformativamente. Come credo di andar facendo quotidianamente.
Alla terza domanda di Teresa vorrei rispondere in maniera abbastanza secca, dicendole “no, non è possibile”. Invece, mi limiterò ad invitarla alla lettura di uno dei più cari dei miei “maestri eretici”, Günther Anders [nella foto], totalmente ignorato dalla nostra manualistica filosofica. E vorrei riparlarne dopo questa lettura. La scienza, di cui la filosofia è madre per poi divenirne ancella, a partire dal XVII secolo, nasce con un progetto di dominio in cui l’illimitato è genetico, e cioè il rifiuto di qualunque limite. Come pochi decenni prima si erano varcate le colonne d’Ercole, così si sognò l’immortalità (Cartesio), nuove Atlantidi il cui benessere fosse garantito dalla tecnica (Bacone), si violarono i segreti più reconditi della natura, si scisse l’atomo, si manipolò la cellula… Il limite non sarà mai fissato da alcuna bio-etica (pur doverosa), ma solo da un ripensamento ab imis dell’essere. Di qui, e chiudo come ho iniziato, la centralità di Heidegger.

mercoledì 12 dicembre 2012

"In quieta ricerca" XV

Ti ringrazio per avermi scelto per presentare il tuo libro. Ne sono onorato. In un primo momento, lo confesso, ho pensato ad un errore di persona! Come sai non sono un esperto di filosofia e sotto tale profilo sono il meno indicato a parlare (anche se, chiarisco subito, il tuo libro non è di filosofia). Mi guadagno da vivere facendo l'avvocato e scrivo per diletto. Tutto qui. La mia presentazione dunque è quella di un semplice lettore.
Ti conosco dai tempi de la rosa necessaria. Venni ad uno dei vostri incontri. Esordisti così: «Noi qui leggiamo poesie». Mi piacque molto quella frase. Se posso condensare il tuo libro in un'espressione, forse non troverei frase più adatta. In effetti indichi nella poesia una possibilità di salvezza. Ti dico subito che ne sono convinto anch'io. Su come la poesia possa compiere questa missione stornando l'umanità da certe miopie, questo è un altro discorso. Ci ritornerò a breve.
Il tuo è, solo apparentemente, un libro di riflessioni varie. In realtà credo ci sia un forte filo conduttore che lega le pagine. Anzi, penso ci sia un'“onda” squisitamente narrativa. Quella a cui ogni bravo scrittore deve tendere, che tiene desta l'attenzione del lettore e che gli fa vivere con partecipazione il “racconto”. Per me questo è un pregio. Non trascurabile. E spero non me vorrai, visto che nelle tue pagine cerchi di mettere in discussione la “tecnica”, non esclusi taluni aspetti formali e dimensioni estetizzanti della letteratura, così come sino ad oggi la conosciamo.
Nell'introduzione, infatti, in particolare nello "Scopo del libro”, poni subito delle riflessioni importanti; parafrasando una tua espressione poni «profonde domande di senso», ed io aggiungo , come appassionato di scrittura e dunque anche dagli aspetti tecnici ed estetici ad essa connessi, poni di fatto anche “l'ostacolo” squisitamente narrativo: «stiamo vivendo un tempo apocalittico, con l'emergenza contestuale di quattro crisi, ecologica, energetica, economica e psichica. Il rischio concreto è quello di un vero e proprio collasso». In altri termini obblighi il lettore a chiedersi: «E ora? Come usciamo da questo tempo “apocalittico”? Come evitiamo il collasso? Come superiamo l'ostacolo?»
La parte centrale del libro, attraverso la presentazione dei "Maestri eretici" (ma anche più innanzi con le bellissime riflessioni sulla “tecnica”), individua lo sguardo nuovo da adottare. Cominci a dare, cioè, degli spiragli di uscita. Sono autori "forti”; il loro pensiero e le loro scelte di vita suonano come un ceffone a viso aperto. Con intuizione inedita accosti tra loro pensatori, scrittori, registi, addirittura contrastanti. Dai un esempio concreto di lotta contro la “parcellizzazione dei saperi”. È un contrasto apparente, poiché alla fine il lettore riesce a cogliere in ciascuno di tali “maestri”, possibilità concrete per invertire la marcia verso il collasso, per “capovolgere l'abisso”. Attraverso le pagine si coglie bene la “proposta” di uno sguardo diverso. Usando una tua metafora, lo sguardo attuale scruta l'orizzonte innanzi la prua del Titanic. Il rischio è immenso. Da una simile nave, evidentemente, dobbiamo cercare di scendere.
Nella parte finale del libro, caro Nicola, indichi nella poesia una strada. Ritengo però sia solo un accenno ad una soluzione. L'onda narrativa del tuo libro, dopo un percorso intenso, indubbiamente ritorna ad un equilibrio e dunque si compie. Tuttavia, accennando al superamento dell'ostacolo (ancorché nell'ambito di un forte segnale di speranza) fai nascere in chi legge degli interrogativi cruciali e soprattutto l'urgenza di risposte. Ecco, proprio qui, da comune lettore, la mia mente si affastella di domande. Hai posto “profonde domande di senso” utilizzando ancora la tua espressione, riesci a farle porre al lettore comune, e poi lo “abbandoni” con questo messaggio: «la poesia è una via di salvezza». Ma come? In che modo? Come può la poesia dare una risposta? Salvare? Come deve essere la poesia della salvezza? In che modo può riuscire nella sua missione? I poeti devono andare in avanscoperta? E gli altri? I non poeti? Non ci vorrebbe chi educhi ad andare verso questa nuova poesia? Chi sia in grado di "preparare"? Qual è il linguaggio di questa nuova dimensione poetante? E soprattutto è un linguaggio che deve abbandonare totalmente la sua dimensione estetica così come la conosciamo? Ognuno dal suo piccolo deve fare la sua parte. Ma affidarsi solo a processi individuali di cambiamento, onestamente, penso sia troppo poco. Credo che adottare un sguardo nuovo non sia facile soprattutto per chi è affetto da miopia cronica. E' cogente dunque anche porsi il problema di come si possa educare all'adozione di questo sguardo diverso.
So che uno scrittore che voglia far passare un messaggio, qualunque esso sia, ha sempre il dovere di sedurre il lettore, di sforzarsi di “toccare” i suoi sensi. Per chi scrive questa è un urgenza sacrosanta al pari del contenuto. Lo sforzo di rendere condivisibile un messaggio, dopotutto, dovrebbe essere comune ogni disciplina. Come lettore è inutile negarti che mi sono nutrito molto anche di quella poesia e letteratura estetizzante o di puro diletto che tu biasimi nel libro. Allora mi chiedo se non bisognerà preparare il terreno proprio a chi come me forse non è ancora pronto ad abbandonare del tutto una certa dimensione estetica. Educarlo e condurlo sulla strada di questo “rinnovamento” o "rovesciamento". Porsi il problema di come i non poeti potranno acquisire lo sguardo “non rapace” e “non dominatore” sul mondo.
Mi auguro sinceramente di leggerti di nuovo, quanto prima. Nell'auspicio che tu possa rendere sempre più agevole la strada nuova da percorrere.

Giovanni Rossi

Giovanni Rossi è avvocato e scrittore.
Il testo è rielaborazione dell’intervento tenuto in occasione della presentazione di
In quieta ricerca a Vitulano l’8 dicembre 2012.

lunedì 10 dicembre 2012

"In quieta ricerca" XIV

«Solo i superficiali non giudicano dalle apparenze» (Oscar Wilde). Perché un’affermazione così provocatoriamente conformista in uno scrittore notoriamente indifferente al giudizio dell’opinione pubblica? Probabilmente Wilde voleva farci riflettere su come ciò che appare, spesso, rifletta ciò che è; su come il “visibile” rimandi ad un “invisibile” di cui è manifestazione, esteriorizzazione, fisicizzazione. Quando ho avuto in mano il libro di Nicola, ho pensato proprio a quanta verità ci sia in questo aforisma. Esso, infatti, è anche corpo, materializzazione della sua spirituale visione della vita. Provo ad analizzarne gli elementi.
Il materiale di cui è fatto, carta riciclata, ci parla dell’anima ecologista di Nicola; la casa editrice è “Percorsi”, di cui è socio Carlo Panella, direttore de «Il Vaglio», cui Nicola è legato da un rapporto di stima e di leale amicizia; la copertina è illustrata da Christian Mirra, noto grafico e vignettista, già vittima e testimone dei fatti della Diaz, in occasione del G8, cui Nicola, Michelangelo Fetto e Antonio Intorcia, durante la “Notte Bianca della Scuola Pubblica Sannita”, hanno conferito la cittadinanza onoraria di Benevento, proprio quando la stessa cittadinanza veniva tributata dall’amministrazione comunale al capo della Polizia, Antonio Manganelli.
Vale la pena di soffermarsi sull’illustrazione che, a mio avviso, delinea elementi fondamentali nel vissuto di Nicola: la bicicletta, metafora della sua visione del tempo e di uno stile che, nell’“andare lento”, coglie la necessità di sottrarsi alla frenesia della contemporaneità per godere degli incontri sul cammino e per assaporare i luoghi che si attraversano; il prato fiorito, in primo piano, la sua attenzione per la natura e l’amore per la poesia; il monte alla sinistra con il monumento, forse un castello, e le case di un tipico paesaggio di paese il rispetto per le tradizioni, la storia, il passato; il mare col sole al tramonto il pensiero meridiano e il suo legame con Franco Cassano; i libri che riempiono il disegno la cultura che nutre le sue giornate. La dedica alla madre, radix/matrix, per usare le espressioni di uno dei suoi amati poeti, Paul Celan, e alla figlia Caterina, semen, testimonia il legame con due donne centrali nella sua esistenza, a cui si aggiunge un’assenza/presenza, quella della sua compagna di vita che ne rappresenta il trait d’union, la continuità tra un passato ed un futuro che si fondono nel presente.
Il titolo (In quieta ricerca) rimanda al significato di una ricerca che dà valore, socraticamente, alla vita ma condotta quietamente, senza l’affanno faustiano, come si ricorda nel libro; la ricerca però è anche sempre «inquieta», perché è conversione e ri-conversione, messa in discussione di ciò in cui si crede, correzione e revisione, conflitto e lacerazione...
La prefazione è affidata ad un’altra presenza importante, Marco Guzzi, il pensatore sensibile e attento che ha operato in lui una profonda conversione, avvicinandolo, dopo l’ateismo militante cui era approdato, ad una visione più serena della spiritualità.
Qual è lo scopo del libro? Nicola lo dichiara esplicitamente: criticare il mito del progresso, valorizzare uno sguardo poetico sulla natura che nasca da una profonda rigenerazione spirituale; riconoscere la nostra creaturalità per lenire il prometeismo che, dall’avvento della modernità, guida le sorti umane; prendere consapevolezza dalla necessità di applicare quell’etica della responsabilità che Hans Jonas ci ha indicato come necessaria per poter consegnare ai nostri figli una madre Terra non del tutto devastata da una tecnica illimitata.
Il libro è percorso dalla raffinata poesia di René Char («Se abitiamo un lampo, il cuore dell’eterno») ; dalla saggezza pedagogica di Edgar Morin, che, nel ricordare il monito di Michel De Montaigne a formare «teste ben fatte» invece che «ben piene» ripropone un insegnamento/missione che richiede eros, piacere, desiderio, amore non legati al potere, ma al dono, esattamente come fa ogni giorno Nicola con gli studenti che hanno la fortuna di averlo come educatore; dalla «coerenza mobile» di Marco Revelli, a proposito della quale Nicola dice che è propria di chi, come lui, è fedele alla propria scaturigine, ma mette comunque in discussione la propria tradizione; dalla critica di Serge Latouche all’americanizzazione del quotidiano e all’occidente culturicida, culturofago, con la sistematica distruzione della biodiversità culturale; dallo smantellamento del mito dello sviluppo che ha portato, incarnato dall’homo faber/demens al comunismo sovietico, ad Auschwitz, a Hiroshima; dal continuo, esplicito/implicito, richiamo alla filosofia di Heidegger.
«Ho combattuto tutta la mia vita sulle frontiere» è la frase preferita che Nicola, riprendendo Charles Peguy, utilizza spesso per connotare le sue scelte di vita, il suo essere partigiano, il suo coraggio nel prendere posizioni difficili, spesso decisamente “eretiche” e che lo pongono fuori da ogni chiesa, all’interno della quale si sentirebbe soffocare. D’altronde, come scrive Ernst Bloch, «il meglio della religione è che essa suscita eretici». La prima parte del libro è, quindi, dedicata proprio ai “maestri eretici”: perché? Eresia” deriva dal greco airesis, che significa “scelta”. Eretici erano gli appartenenti ad una scuola, come quella stoica o epicurea, consapevoli di compiere una precisa scelta tra le diverse forme di vita e conoscenza; in ambito cristiano, invece, venne ad assumere connotazione negativa, dal momento che si era obbligati a scegliere un’unica via, quella Orto (retta)-Dossa(opinione), indicata dal Maestro e garantita dall’Ecclesia. Problema che si pone ininterrottamente a Nicola che crede sia essenziale all’essere umano scegliere, prendere posizione.
E tale assunzione riguarda soprattutto non una domanda fra le tante che l’uomo può farsi, ma la domanda, cioè: c’è Dio? La cui tragicità affatica inevitabilmente ogni pensatore onesto e consapevole. Mario Pomilio, con Il Quinto Evangelio e Dag Hammarskjöld, premio Nobel per la pace, gli offrono spunti per rispondere. Non è l’atto religioso a fare il cristiano e neppure la sua fuga nel trascendente, ma la sua partecipazione alla storia di Dio come si manifesta nella storia del mondo. Il nuovo cristianesimo nasce sulla disposizione alla speranza e sul dissenso, sulla disobbedienza al «principe di questo mondo», dall’incontro con Cristo, dalla scoperta dell’altro e dal dono di sé.
Sono questi maestri che gli consentono di superare il rifiuto di una fede confessionale senza rassegnarsi all’ateismo, ma approdando ad una spiritualità che ne appaga l’anima senza rinchiuderla in una chiesa. Una possibilità di risposta, nell’operare una netta separazione tra religione e spiritualità, tra cristianesimo come dogma (gerarchia/istituzione) e kerigma (annuncio/ testimonianza), Nicola l’ha trovata in Bonhoeffer, Weil, Hillesum.
Dietrich Bonhoeffer gli ha indicato cosa significhi vivere in Cristo, come il figlio sia venuto proprio ad abolire la religione, anzi a diventare «il Signore anche dei non-religiosiĞ, e come l’uomo che pone Cristo al centro sia pienamente immerso nella propria mondanità, sia «fedele alla terra», disinteressato al problema della salvezza individuale. Ma Bonhoeffer lascia aperte altre domande: come si deve porre quest’uomo di fronte al culto e ai sacramenti? Si è cristiani sulla base dell’adesione ai precetti di fede o in base ad un’adesione esplicita o implicita a Cristo?
Simone Weil, nel ricordargli come gli occidentali abbiano distrutto il passato nelle proprie patrie e in quelle altrui, come il lavoro abbia nella gioia un valore spirituale profondo, ha dato supporto alla sua convinzione che sia necessario abbandonare l’idea moderna di “progresso” e «mettersi in ascolto della parte muta, anonima, sparita della storia». La Weil visse integralmente le proprie idee: volle farsi operaia, fragile, povera; andò volontaria in Spagna durante la Guerra civile, fu profondamente credente, ma non volle mai entrare in una chiesa cattolica che misconosceva la potenza salvifica delle altre fedi.
Etty Hillesum, ebrea che morirà nel 1943 ad Auschwitz, nel suo Diario, ci mostra come per lei la fede sia arrendersi completamente a Dio, in un atto estremo di consacrazione e di amore... Cosa hanno in comune Bonhoeffer, Weil, Hillesum? Una risposta alla domanda fondamentale di Nicola, che è poi la nostra, e, soprattutto, aver vissuto in perfetta coerenza di principi e azioni: Bonhoeffer la possibilità del tirannicidio, Weil l’impegno, Hillesum la resa a Dio nel momento della massima sofferenza. Lo stesso Marco Guzzi, dice Nicola, gli «ha insegnato a non separare le nostre biografie dai nostri saperi». E Heidegger, allora?
La loro individuazione come maestri di vita sembra, in qualche modo, pacificare proprio la scelta di aver conferito ad Heidegger la centralità nella sua filosofia. Riconosco a Nicola di aver aperto, con spirito acuto e attento al dibattito internazionale, la cultura sannita alla riflessione su pensatori poco frequentati, come appunto Martin Heidegger. Personalmente credo, però, che sia anche il più imbarazzante “scandalo”, proprio nel senso di skándalon, che egli si trova a vivere: dover continuamente giustificare la sua predilezione per un filosofo che non è stato semplicemente omissivo nei confronti del Partito Nazista, non è stato “indifferente”, ma ne è stato un sostenitore convinto; il membro pagante dal 1933 al 1945 del NSDAP; il rettore dell’università di Friburgo che disse ai suoi studenti: «Fate che non siano teorie o “idee” a guidare il vostro essere. Il Führer stesso e lui soltanto è la realtà tedesca e la sua legge, per oggi e per il futuro»; che disprezzava la Repubblica di Weimar e citava Omero: «Il governo di molti non è bene, fate che sia il governo di uno solo, di un solo re»; che non ha scritto una sola riga, anche dopo la fine della guerra, sulla Shoah e che a Marcuse, che in una lettera del 20 gennaio del 1948 gli chiedeva perché non avesse parlato dei campi della morte, rispondeva che lo sterminio degli ebrei nella Germania nazista era paragonabile a quello dei tedeschi nell’Unione sovietica, esattamente lo stesso argomento che adducono oggi gli ex filonazisti. Capisco che, come ha più volte sottolineato Gianni Vattimo, è talmente scontato il collegamento col nazismo quando si parla di Heidegger, da essere irritante e dunque ininfluente filosoficamente, ma se dopo I libri di Victor Farias, Heidegger e il nazismo, e quello di Hugo Ott, Martin Heidegger, che hanno affrontato la posizione di Heidegger, ancora quest’anno Emmanuel Faye pubblica Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, vuol dire che il problema non è affatto superato. Non basta, infatti, e Nicola lo sa bene, citare Günther Anders quando, a proposito di Heidegger, riconosce: «Un tal filosofo, mediocre moralmente, quanto grandioso speculativamente» che riconduce la sua scelta politica a opportunismo, condannando la viltà dell’uomo, ma salvando la grandezza del filosofo. Non basta perché il problema non è se sia stato o meno incoerente con la sua filosofia, ma se la scelta ideologica sia anche frutto della sua speculazione o se la sua riflessione abbia determinato la scelta politica. E’ questo il problema più scottante che il libro di Faye affronta anche in considerazione della straordinaria influenza che Heidegger ha avuto e continua ad avere sul pensiero contemporaneo.
Fare come propone Heidegger a proposito dell’Essere, inoltre, «porsi in ascolto», non sembrerebbe indulgere ad un fatalismo, e quindi ad una sorta di storicismo in cui l’accettazione dell’esistente non è che la versione drammatica del più pacato «tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale». Questo Essere che si svela non rischia di essere visto come il logos che percorre la storia? Si lascia ascoltare, bene, non si impone, ma è pur vero che, storicisticamente, la percorre. Se l’Essere si rivela nel tempo, nel momento storico, allora è giustificato che si sia rivelato nell’avvento e nel trionfo del nazional-socialismo?
Nicola, come molti grandi filosofi e poeti, è convinto che l’aspetto nobile, aereo della filosofia heideggeriana riposi nella calda poesia che arricchirebbe la fredda filosofia. È sicuramente l’aspetto più contemporaneo, affascinante delle conclusioni heideggeriane, ma io mi chiedo: l’aver affidato al valore della parola, della poesia che incanta, che stupisce, che ammalia, l’ascolto dell’essere può difenderci dalla fascinazione acritica, dalla capacità affabulatoria del linguaggio, dall’uso spregiudicato del carisma che incanta la fantasia, ma narcotizza la ragione critica? Penso ai filosofi veggenti, ai profeti convinti di potersi mettere a guida dell’umanità e orientare il futuro degli uomini. La poesia, dice infatti Heidegger, è «lo sguardo sul mondo» che salva; è ciò che può «rintracciare la direzione della svolta».
Al di là della bella suggestione che un pensiero poetante può indurre e del dialogo che pensatori come ad esempio Gianni Vattimo accettano tra poesia e filosofia, è veramente possibile una filosofia che sia poesia? La poesia è diversa per ciascuno, è canto dell’anima individuale, mentre la filosofia aspira all’universalità; poesia è perdersi mentre il filosofo è ossessionato dal non perdersi; la poesia è rivelazione della verità, la filosofia ricerca della verità; la poesia è illuminazione, folgorazione: è il fulmine; la filosofia è riflessione, attenzione: è l’incendio.
E ancora: quell’oscurità linguistica, quell’ermeticità di Heidegger, che per Nicola è una scelta obbligata per sfuggire il canto delle sirene di un linguaggio “prostituito” alla metafisica e alla scienza, non è piuttosto ripudio di ciò che è comune, medio, razionale; insofferenza alle regole, al diritto; rifiuto per la democrazia, la scienza, la tecnica? Certamente la democrazia può degenerare in libertinaggio, certamente la scienza può condurre all’abisso di Hiroshima, certamente la tecnica può distruggere il pianeta, ma la democrazia è nata per garantire il dialogo tra gli esseri umani, la scienza per consentire il controllo di una natura che non è sempre buona, ma anche selvaggia e distruttiva, la tecnica per migliorare le condizioni di esistenza, sconfiggere malattie. Cosa può salvarci dai loro esiti aberranti? Nicola è convinto che sia la poesia e che la Filosofia che, insieme al maestro, identifica tout court con la metafisica cartesiana, sia destinata alla morte, a meno che non si lasci abitare dalla poesia. Ma perché ipotizzare la morte della Filosofia, come ultima ratio? Con il riferimento a Popper, a Khun e ad Heisenberg non ci ricordi tu stesso, caro Nicola, che la scienza e la filosofia sono in grado di darsi l’antidoto, di crearsi da se stesse gli anticorpi per difendersi dallo scientismo? Personalmente continuo a pensare che ciò che anche oggi possa darci il limite necessario a correggere la hýbris di un sapere illimitato sia l’etica: è l’etica che, nella deriva politica, civile, religiosa, nella disumanizzazione tecnologica, nell’offesa alla Terra e agli esseri viventi, nella barbarie omofoba e xenofoba può darmi ancora quei punti di riferimento ineludibili che nessuna fascinazione estetica, per quanto forte, può cancellare. Etica è limite, la mancanza di etica è l’illimitato. Heidegger non ha lasciato alcuno spazio ad essa. E ancora: perché la ragione deve essere contrapposta ai sentimenti? Non era Alcmeone che già nel V secolo a.C. indicava un’unica sede, il cervello, per i pensieri e i sentimenti? Lo stesso Kant, considerato il filosofo del dovere, del rigore, del finito sostiene nella Critica della Ragion pura che il sapere scientifico poggia su un mondo che deve, fenomenicamente darsi per essere conosciuto, ma non nega che ci sia una realtà, oltre quella naturale retta da leggi necessarie, che si caratterizza come il mondo della libertà. È l’Etica che ci rende liberi e ci fa scoprire non la nostra onnipotenza, ma la nostra dignità di esseri umani, il comune fondamento della nostra umanità. Noi siamo giudici e imputati, desiderosi di illimitato, ma consapevoli della nostra limitatezza e questo limite non è dato da niente e nessuno fuori di noi, né ce lo può dare solo la poesia, che spesso invece è trasporto, suggestione, incantamento, ma è dato dalla legge morale che è propria di ogni essere umano. Personalmente, pur lasciandomi cullare dalla poesia quando le ansie mi soffocano l’anima e pur rispettando profondamente la raffinatezza e la nobiltà della tua scelta, nelle decisioni importanti, nell’orientamento della mia vita preferisco ancora affidarmi alla ragione “critica”, a quella ragione “buona” che dà il limite a se stessa e che ancora può difenderci da quei monstruos che Goya ha descritto così efficacemente e contro i quali tutti noi, io e te, amico mio, combattiamo ogni giorno.

Teresa Simeone

Teresa Simeone insegna storia e filosofia presso il Liceo Artistico di Benevento. Collabora a «il Vaglio».
Il testo è rielaborazione dell'intervento tenuto in occasione della presentazione di
In quieta ricerca a Vitulano l'8 dicembre 2012.

venerdì 7 dicembre 2012

"In quieta ricerca" XIII

Ieri [30 novembre], alla Luidig, ho assistito alla (seconda) presentazione del libro In quieta ricerca; è stato una sorta di controcanto all'apoteosi del Teatro de Simone, una specie di controfestival, cui Nicola si è esposto con grande umiltà, quasi lo ritenesse un atto dovuto. È stata una sassaiola, e non solo da parte dell'irriverente Guido Bianchini e del decadente Luigi Furno.
L'immagine che ho di Nicola è, come gli ho detto, tutta nella copertina del suo libro. Non è un espediente per glissare sul contenuto: il libro l'ho letto, anche avidamente, ma ritenendolo una “mappa concettuale per diventare Nicola Sguera”, non ne parlerò. Con questo non voglio essere riduttivo: c'è la vita, la formazione, la complessità, la forza e la debolezza di un uomo che io ritengo, per me, guida e ascolto. 
Ma dicevo della copertina, azzeccatissima, a mio parere: azzeccatissima nell'aver individuato la dimensione di Sguera, un paesaggio in quiete, tra libri che volteggiano, un sole sullo sfondo, senza esseri umani nel paesaggio, né animali. Una illustrazione vegetariana. Che paradossalmente ha, come richiamo degli esseri umani, solo prodotti di quella tecnica pure tanto aborrita a parole da Nicola: libri rilegati, una bicicletta, occhiali, una barca, poche case. Gli uomini scompaiono e ricompaiono nelle loro realizzazioni. Anche la famiglia, un punto fermo nella vita di Nicola, è assente. Ma forse la sta raggiungendo, nell'illustrazione. Forse sta tornando alla comunità dal suo otium di campagna. 
Questo è ciò che sempre ho rimproverato a Nicola, che in modo testardo si definisce socratico: Socrate costruiva la verità col dialogo e nel dialogo, in una dimensione politica di ricerca; in Nicola, la dimensione politica (nel senso più largo del termine) è una dimensione di divulgazione, di una verità propria ch'è il frutto piuttosto di una introspezione, di una spiritualità, anche profonda. 
La mia impressione è che Nicola abbia pudore della propria spiritualità, e si ostini a sporcarla col mondo. I risultati sono spesso maldestri, o equivocati, come nella scritta «Sguera infame», sul muro del “suo” liceo [vedi foto in basso]. Chi ha scritto ciò, si è impressa una macchia ancora peggiore di quella presunta: l'ingratitudine. Se per un attimo vi soffermate su ogni singola parola, capirete che cosa voglio dire. 
Tuttavia, Nicola, la tua foto sorridente accanto la scritta mi ha turbato. Capisco il tuo amore per la frontiera, ma in questo momento sei più su una china, e fa' attenzione. Te lo dico perché ti voglio bene. Perché ti voglio bene, ieri t'ho detto che ogni comunità ha gli intellettuali che si merita. Voleva essere, nel mio registro comunicativo che conosci, un complimento scherzoso. Perché io ritengo che tu sia, per la nostra città, una rosa necessaria.

Nunzio Castaldi

Nota apparsa su Facebook (con il titolo "Nicola Sguera, ovvero sull'infamia o dell'infamità"). Nunzio Castaldi ama definirsi «partita I.V.A.». In realtà, conserva una passione autentica per la filosofia (e in particolare per il pensiero e l’opera di Carlo Michelstaedter) e per la cultura latina.

La scritta immortalata nella foto di Massimo Terella fa riferimento alle polemiche legate alle "occupazioni" delle scuole da parte degli studenti, frangente nel quale io ho assunto una posizione fortemente critica, suscitando le ire delle frange più radicali del movimento studentesco