lunedì 30 dicembre 2013

Yogananda [Diario mentale]


adultità


Diventare adulti

Diventare adulti non è un fatto anagrafico. Ci sono adolescenti già adulti e persone mature ancora “immature”. Essere adulti significa accettare la responsabilità delle proprie azioni. Sapere che ogni cosa che fai ha una conseguenza (positiva o negativa) di cui devi portare il peso.
Maturando cambia la percezione del tempo e si impara anche ad accettare che le lancette non si fermino mai, ma anzi scorrano sempre più velocemente.

Fughe

Nei momenti difficili della vita sogneremo sempre un altrove collocato nel pre- o nel post-. Le forme più radicali di questo altrove sono il paradiso uterino in cui vivemmo per nove mesi e quello “religioso”, dove cantiamo con i beati o giacciamo con le vergini. La regressioni è un bisogno incoercibile per la psiche umana. Ma il sogno può essere solo piacevole, solo la vita vera (incarnata!) dà la felicità. Che è sempre la fine di un percorso aspro. Per aspera ad astra, dicevano gli antichi. Per crucem ad lucem. Scoprirete la profonda e sofferta felicità della vita e dell’essere adulti responsabili.
Gli adulti, anche se conservano persone vicine, sono soli perché le decisioni sono quasi sempre prese in solitudine (quelle importanti). Archetipo di questa solitudine è l’Abramo di cui parla Kierkegaard, che decide da solo di obbedire a Dio e sacrificare il suo unico figlio Isacco.

Paradiso uterino

La regressione uterina, il paradiso amniotico è, probabilmente, la più potente immagine “utopica” che esista: annullamento dell’io, benessere, pace, silenzio... Dunque è normale sognare di tornarvi, in forma simbolica. Quando l’uomo fa l’amore non sta cercando anche di riaprire la porta del paradiso da cui fu cacciato?

Freud



Questo è uno dei motivi per cui considero Freud (anche se ne condivido la visione complessiva del mondo) uno degli autori decisivi della cultura occidentale. Perché ci ha insegnato a fare i conti con quel lato in ombra del nostro essere che solo i poeti prima di lui avevano esplorato, preferendo la filosofia avviarsi (da Socrate in poi, per certi versi) sulla via della razionalità assoluta, della chiarezza, della autotrasparenza. Che è impossibile. Noi non potremo mai conoscerci fino in fondo. Non potremo mai rispondere compiutamente alla domanda: chi sono io? Per certi versi noi siamo vissuti, siamo eterodiretti da zone della nostra psiche di cui non siamo padroni (gli istinti!). Ma con questo bisogna fare i conti, e con la nostra primissima infanzia, dove si decise, in grossa parte, ciò che saremmo stati dopo.

(Dal Quaderno del 2007)

Pascal [La carità]


Cuore infranto


Eraclito [Logos]


domenica 29 dicembre 2013

Buber [Relazione]


Follerau [Amare]


ascolto, poetica/mente





Ho sempre pensato allo sguardo, alla necessità di un altro sguardo. Stamane è arrivato a compimento un pensiero che covava nel profondo. Ragionavo su cosa accomunasse le mie ambizioni: essere – da uomo di fede -  marito, insegnante, poeta. Ebbene, le prime tre cose sono caratterizzate dalla relazione, dall’essere dimensioni necessariamente dialogiche e relazionali: il dialogo con Dio, il dialogo con Rosaria, il dialogo con i miei alunni. A cui ora si è aggiunto, con il ruolo di padre, il dialogo con mia figlia. La parola dialogo però travisa, per la sua origine greca: è “parola tra”. Ma io non parlo con Caterina (o meglio lei non parla con me) eppure siamo già una profondissima relazione. L’essere poeta è uno sguardo diverso sul reale. Ma questo sguardo è sempre soggettivo, è come lo sforzo tutto volontaristico di vedere le cose in un altro modo. Si resta all’interno della metafisica (direbbe Heidegger), della scissione, se sono io che guardo in modo diverso (restando nella centralità dello sguardo). L’ascolto mi pone invece in una posizione non più dominante. Io agisco venendo agito. Ascolto Dio che mi parla e gli rispondo, ascolto mia moglie e i suoi bisogni e le rispondo, ascolto mia figlia che piange e le rispondo con un’azione, ascolto i bisogni dei miei studenti e agisco di conseguenza. Ascolto il mondo: questa forse è la poesia. Non sguardo ma ascolto. 

(Dal Quaderno del 2006)

Celan - Il meridiano


Pace II


Follerau: Amare...


sabato 28 dicembre 2013

quaderno 2005 (dicembre)



Il corpo e la mente. Il corpo è la mente. La mente è il corpo. Non dimenticare. Ogni cosa che accade nell’uno accade anche nell’altro. Sempre. Illusoria ogni scissione. Nel bene come nel male (in quel che noi crediamo bene, in quel che noi crediamo male). Saggezza orientale da recuperare in toto.

* * *

Bisogna curare ogni gesto. Quando alcune pratiche che sono state positive si rivelano mortifere, bisogna avere il coraggio di troncarle.
La quantità non è mai un valore.
Importanza del raccoglimento.
Chiedersi sempre: cosa sto facendo ora? Se non è in grado di rispondersi, bisogna fermarsi e capire. Non imputare mai al tempo, soprattutto nel mio caso, la colpa. Ogni azione è importante se vissuta con consapevolezza.
Non lasciarti dominare dagli eventi.
Ogni giorno una crescita di consapevolezza.
Non c’è nessuna azione importante in sé.

* * *

Le strade del suo cuore.
Mare agitato.
Sciogliere catene inique.
Spezzare ogni giogo.
Varcate la porta, il tempio del cuore.

Il Signore mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza (Is., 50, 5-7).

(Dal Quaderno del 2005)

Amorosa solitudine


venerdì 27 dicembre 2013

Matrix radix


Iribarren - I giorni normali




LOS DÍAS NORMALES
Llegan
y se van sin hacer ruido
–como buenos
clientes–,
luego el tiempo los confunde
en la memoria,
y ya ni sabes
si aquel lunes era jueves
o al revés.

Que no te engañen,
no son tan poca cosa
como parecen:


suelen poder
con el amor.


(Traduzione di Anna Rita Margio e Nicola Sguera)

Qui una versione musicata della poesia di Vicente Llorente.

giovedì 26 dicembre 2013

20 pensieri




1.  Bisogna accettare le prove della vita, vivendole nel centro dell’uragano: scavalcarle con il sogno di una stagione serena è, nello stesso tempo, vile e vano, perché ci saranno problemi sempre nuovi ad angustiarci. Come Arjuna bisogna non rinunciare al proprio dovere, slanciarsi nella battaglia, senza badare al frutto dell’azione: in linguaggio cristiano, senza aspettare una ricompensa da Dio.

2.    Qualsiasi possesso implica l’asservimento a ciò che si possiede.

3. Il peccato più grande, quello contro lo Spirito, è abbandonarsi alla disperazione, credere che Dio ci abbia abbandonato. Bisogna guardarla in faccia la disperazione, non farsene travolgere. Soprattutto, non bisogna mai credere che ci sia qualcosa che meriti la nostra disperazione assoluta: disperare vuol dire essere senza speranza. Questo è il puro ateismo, essere privi di speranza. Ricordarsi di San Paolo (soprattutto la speranza). Non esiste nulla che meriti la nostra disperazione (non esiste il Nulla che solo la meriterebbe!).

4.   È difficile conciliare l’aspirazione alla felicità con la vita cristiana. Perché ciò avvenga è necessario distruggere l’io, la cosa più difficile: esso infatti tende a far coincidere la felicità con la propria soddisfazione (fisica e psichica). Bisogna “perdere se stessi”. Questo è il messaggio comunicabile di tutti i grandi maestri spirituali dell’umanità che Cristo ha incarnato più di tutti. Fino a quando un uomo crede che il fine della sua vita sia la felicità dell’io non farà altro che scontrarsi con la costituzione dell’essere umano (per la quale resta insuperata l’analisi leopardiana). Il vacuo edonismo del nostro tempo deriva da scarsa lucidità nel capire il nesso tra ricerca spasmodica della felicità (del piacere) e sua impossibile realizzazione esclusivamente “umana”.

5.   La nostra è un’epoca terribile perché moltiplica all’infinito il desiderio e additando come modelli esistenziali esempi di “felicità compiuta”. Simbolo del tempo sono i cataloghi, moltiplicatori di attese e speranze, fonte di dissipazione dell’energia fondamentale dell’uomo che dovrebbe aspirare alla compiutezza assoluta (cioè slegata da tutto). L’uomo allora disperde in mille rivoli il suo cuore. Da qui l’esigenza della “povertà” di cui parla Cristo (come ogni maestro dello spirito). Nella povertà l’uomo può raccogliere le sue energie per raggiungere il suo tesoro, il Sé, conoscendo se stesso, secondo il motto ripreso da Socrate e collocandosi così al centro dell'universo cosmico.

6. Come ottenere tale risultato restando nel mondo? I solitari (monaci) per l’organizzazione stessa della loro vita, sono facilitati in questo tentativo. Davvero, come dice Eckhart, ci vuole una maggiore santità per seguire Cristo continuando a vivere nel mondo.

7.   Calmarsi, sorridere, momento presente, momento meraviglioso.

8.  «L’azione è superiore all’inazione» (Bhagavadgita, III, 8). «Meglio il nostro proprio dovere benché imperfetto che il dovere altrui ben compiuto» (III, 35).

9.   «Mangiando, bevendo, masticando, gustando, evacuando, camminando, restando seduto, dormendo, vegliando, parlando o tacendo, egli comprende perfettamente quello che fa» (Dîghanihâkya).

10. I demoni esistono. Nel cuore dell’uomo. Il loro signore è Satana, il diavolo, “colui che separa” (l’uomo da Dio). Ogni uomo combatte con un demone sconosciuto agli altri, con quale convive fin dall’infanzia. Quando riesce a sconfiggerlo, torna nel seno di Dio, che lo accoglie come il figliol prodigo.

11. «Porre rimedio al divorzio che esiste da venti secoli tra la civiltà profana e la spiritualità nei paesi cristiani» (Weil, Lettera a un religioso).

12. Limitare i consumi oggi è una forma di santità nei confronti degli altri e del mondo, dunque di Dio.

13. «Ancora benedicimi perché un uomo mantenga ciò che un ragazzo promise» (Hölderlin, Alla mia venerata nonna).

14. Un uomo che guarda con fervida ammirazione ad individui eccezionali, viene corso da brividi quando pensa al martirio, e poi attua una vita “borghese” (nel borgo, con le pantofole ai piedi), mirando esclusivamente alla tranquillità.

15. «Il fuoco che io accendo è quel che appare del fuoco interiore che mi consuma» (Gandhi).

16. «La civiltà non consiste nel moltiplicare i bisogni, ma piuttosto nel ridurli, coscientemente e volontariamente» (Gandhi).

17. È difficile combattere con se stessi, malgrado le buone intenzioni. Non basta persuadersi che la propria vita non conta nulla nel mare dell’essere e che tutto ciò che crediamo appartenerci (dalle qualità interiori agli oggetti) è destinato a trapassare rapidamente. Arrivati a questa consapevolezza, bisogna saper accettare la voragine che si schiude sotto (e sopra) di noi. «Che farò ora?». Non è nichilismo: il nichilismo apre un vuoto che accetta di essere riempito da tutto, violenza e droghe, pornografia e politica. No, si tratta di un vuoto assoluto, che richiede una capacità assoluta di risposta.

18. Ogni uomo deve essere “pontefice”, costruire i ponti per (far) accedere a Dio.

19. La materia come serbatoio di forze sacre.

20. Sarò adulto quando non avrò timore, permanendo nella giustizia, dello scontro, fino alle estreme conseguenze, guardando le persone negli occhi. 



(Dal Quaderno del 1998)

Morante - Il mondo salvato dai ragazzini


Ave


domenica 22 dicembre 2013

Al Dio sconosciuto


Iribarren - La cosa peggiore, la più triste



LO PEOR , LO MÁS TRISTE

No sé si soy
feliz,
si verdaderamente
lo he sido
alguna vez;
aunque creo que no.
Y a ti te ocurre
otro tanto,
me consta.
Pero no es esto
lo peor.
Lo peor del caso,
lo más triste,
es que ya
ni siquiera

nos importa.


Karmelo C. Iribarren
 è un poeta spagnolo (San Sebastiàn, 1959), che ha autorizzato formalmente la pubblicazione dei suoi testi tradotti.

* * *

Con questo post "Svolta del respiro" accoglie l'appassionato lavoro di traduzione di Anna Rita Margio, con l'auspicio che chiunque ami la poesia voglia contribuirvi.

lunedì 18 novembre 2013

Per aspera - Elide Apice


Colpisce la copertina, una foto antica, in primo piano una bimba che bacia il suo papà, intuisci e poi hai conferma che quella bimba è sua madre ed è sempre difficile immaginare una mamma da bambina e che quel papà è un nonno, e non si riesce quasi mai ad immaginarli giovani.
Questa la prima impressione per il nuovo lavoro di Nicola Sguera, Per Aspera edito da Delta 3 nella collana “Pugillaria”, curata da Paolo Saggese, presentato ieri all’Auditorium Giovanni Paolo II dove l’autore è stato circondato da parenti, amici, allievi «parti della mia vita».
Dopo i ringraziamenti a chi lo ha accompagnato in questo percorso, Giuseppe Iuliano, Paolo Saggese, l’editore Silvio Sallicandro, e Giovanna Lizza «che materialmente e spontaneamente ha permesso questo momento includendolo nella serie di incontri con gli autori», si è entrati nella poesia che è anche musica e da musica è stata introdotta, quella che ha accompagnato gli anni della  ricerca di Nicola Sguera. 
È la prima raccolta di poesie,  produzione di un ventennio,  dal 1990 anno in cui scomparve la madre, Caterina, il cui passato si riflette nel futuro della figlia che porta lo stesso nome, al 2010 quando, nel suo luogo dell’anima, San Cumano, Sguera capisce che è alla fine di un processo di ricerca, che è arrivato il momento di mettere un punto fermo e provare a ricominciare.
Quattordici le composizioni scelte  e lette dallo stesso autore «non per narcisismo, ma perché compito di chi scrive è riuscire a mettersi a nudo di fronte a chi ascolta», più la prima, Andros, letta da un amico, e per ognuna una parola a dire, a spiegare  per aiutare a scendere nei meandri di versi  che si rincorrono e si intrecciano a trattenere sensazioni. «Ho pensato a questa serata coma ad una liturgia breve - aveva esordito Nicola Sguera - perché a me sta a cuore che questo sia un momento religioso ed è per questo che ho volto essere proprio io a leggere le mie parole perché ho sentito che la mia poesia reclamava attenzione  il mio coraggio di mettermi a nudo di fronte a voi».
«La tua poesia mi sembra una poesia religiosa, consapevole che oggi la nostra crisi prima che economica è religiosa. I tuoi versi sono meditativi, sofferti, messi in forma con grande misura e perizia», si legge nella prefazione di Franco Arminio e nell’introduzione di Luca Rando si legge che «queste poesie trattano dell’uomo che nella distruzione che lo circonda vuol resistere.»
Il tema centrale è quello degli ultimi, degli sconfitti [...].
Il punto di partenza è la famiglia, quella di ieri, alla madre «radice e matrice», quella di oggi,  alla moglie cui è dedicato il libro, alla figlia. 
Cinque le sezioni in cui il libro [...] è diviso.
“Matrix”, la prima parte, in cui l’autore si riporta alle «benigne presenze», i morti e al ricordo di sua madre, morta troppo presto, e di Marilena «che mi piace pensare prima lettrice di questo libro in un altrove in cui spero ardentemente di ritrovarci».
“Cronache”, la seconda parte, «incontro dei destini generali» - racconta Sguera, mentre in sottofondo si ascoltano le note di Fischia il vento, e si scusa per qualche parola forte in alcuni versi in La puttana contadina.
“Bestiario” è la terza parte che raccoglie parole dedicate al mondo animale, alla speranza  che «verrà un giorno in cui tutto ciò cui gli animali sono sottoposti sarà inimmaginabile», al racconto del come, circa 30 anni fa, la riflessione sulla sofferenza animale lo abbia fatto diventare vegetariano.
“Percorsi d’esodo” nella quarta parte, «la sezione più complessa perché raccoglie versi degli anni della mia ricerca spirituale iniziata nel 1984 con l’abbandono della religione cattolica».
«Non so dirvi dove sono ora - si è come confessato Sguera - e forse la recente scomparsa di Marilena ha messo  in discussione le mie certezze e mi ha fatto formulare una domanda: chi è Dio per me?»
La quinta sezione, “Il seme”, introdotta da musica barocca, è dedicata al presente, al futuro.
«Il titolo è certamente polisemico e ognuno potrà dare la propria interpretazione. Per me ha il significato soprattutto di sbocco di  questa lunga relazione con mia moglie, sigillo di questo libro, nel seme che è mia figlia Caterina, la cui nascita è stata un percorso aspro e lungo, ma che mi ha fatto riconciliare con l’altra Caterina, mia madre, scoprendomi albero frondoso capace di dare frutti». 

«Nessuna risposta alle domande fatte.  Nessuna domanda più», questo l’incipit di Epitaffio che conclude la raccolta che è quindi  percorso travagliato che dalle asperità dell’esistenza può portare alla luce, ed è un discorso che parte dal personale per arrivare all’universale, perché le vicende dell’autore possano servire da esortazione per compiere un proprio percorso di ricerca in se stessi.

Il servizio completo di Elide Apice su Sannio Teatri e Culture.


venerdì 15 novembre 2013

Per aspera - Annalisa Ucci


I versi, parole messe insieme, parole spesse volte divise da un abisso che inspiegabilmente si fondono o si susseguono in maniera impeccabile, danno vita ad una poesia. La poesia, concedetemelo: uno straordinario mezzo comunicativo. Sì, è vero, di frequente banalizzato e mercificato, impiegato in maniera semplicistica e addirittura maltrattato. Nonostante tutto resta pur sempre  un singolare e raro modo di raccontarsi e raccontare, spiegarsi e spiegare, un costante processo di darsi e ricevere.  Detto questo, credo sia una interessante lettura la nuova raccolta di Nicola Sguera, ormai noto nome beneventano, una raccolta, appunto, di poesie comprese nel ventennio 1990-2010. Per aspera, il titolo del suo ultimo lavoro, nasce proprio come una necessità, come lui stesso spiega: «Ho avvertito il bisogno di mettere un punto fermo in un percorso molto lungo» [...].
Il 1990 è la data della scomparsa della madre cui è dedicata la prima sezione di poesie, comprese sotto il titolo generale di “Matrix” [...]. 
Il titolo della raccolta è chiaramente di derivazione latina, «Per aspera sic itur ad astra», un percorso attraverso le asperità per giungere alla luce o, più letteralmente, alle stelle. [...]
«Poiché io mi reputo un homo viator, quindi un pellegrino, in quieta ricerca, vorrei che le persone empaticamente, leggendo i miei versi, avvertissero questa dinamica trasformativa, itinerante e venissero aiutate, semmai,  a fare il loro percorso».
Dunque è vero si che si parla di vicende personali , ma tale soggettività dovrebbe servire come invito, un’esortazione a ciascun lettore a compiere un proprio percorso e, di conseguenza non leggere la persona–autore di quei versi. Un legame saldo in tutto il lavoro svolto, una consecutio tra titolo, immagine di copertina, componimenti e finale che vanno a chiudersi a cerchio, custodendo quel ventennio sì, ma puntando verso la luce.
Vicende personali si alternano anche ad avvenimenti di attualità e sociali, raggruppati sotto la voce “Cronache”, seguite da “Bestiario” e “Percorsi d’Esodo”, inteso nella sua accezione biblica, un sinonimo di ritorno alla fede ed infine “Seme”, in cui si parlerà della moglie e della figlia. Uno scrigno prezioso questa raccolta, che ha tanto da comunicare.
Per quanto riguarda l’aspetto più propriamente tecnico, Nicola afferma: «Personalmente ritengo di avere, come dire, una mia musica. Che non è una musica codificabile, ma cerco sempre di ascoltare quella musica che in quel momento mi risuona nella testa attraverso le parole e limarla sempre si più» [...].
Nel 2010, proprio nel “luogo dell’anima” ovvero la casa in campagna tanto cara a Nicola, lui stesso, durante le meditazioni estive, ha avvertito che si fosse chiuso un percorso di ricerca poetica e ne stesse iniziando un altro su cui non ha grandi certezze, ma ne menziona i punti di riferimento come le letture delle poesie di René Char  o la scoperta dirompente di Eraclito ed in genere il pensiero presocratico, linee guida di questa sua nuova fase. 


La prefazione di Franco Arminio  e l’introduzione di Luca Rando lasciano intendere  ancora meglio il significato del lavoro di Nicola Sguera, figlio della poesia del ’900 [...].

L'articolo completo su «BMagazine».

giovedì 14 novembre 2013

Per aspera - Giovanna Lizza


Caro Nicola,  [...] dopo In quieta ricerca non ho smesso di seguire un itinerario di domande e risposte possibili, a partire dalle tracce che hai lasciato in quel libro.
E ora non si torna indietro dopo queste poesie, che hanno dato corpo a paure, angosce, illusioni.
La preghiera impetrata a un Dio perché Dio sia; la Vita tradita nelle esistenze considerate minori; il senso di protezione effimero, eppure necessario da infondere a chi ne ha bisogno per crescere sorridendo; l'altro che non è più ritmo di tempesta, ma di onda che culla rassicurante; il gelo dell'ultimo respiro. Lo sguardo su chi inconsapevole è già ciò che resta di noi. Traslati di memoria buoni e cattivi come i giorni della vita. Le tue parole hanno scolpito le mie sensazioni, liberandole, ma legando me. I tuoi versi hanno tracciato l'identità di un uomo che si muove nella fragilità dei nostri tempi con trasparenza e disincanto, senza conoscere la resa, seppure combattendo con armi da sconfitta. 

domenica 10 novembre 2013

Shelley - Difesa della poesia


Per aspera - Dalla Introduzione di Luca Rando




Questo libro, il primo di poesie di Nicola Sguera, è un percorso di vent’anni. Di vent’anni sia perché l’autore era poco più che ventenne quando ha iniziato il suo percorso poetico, sia perché questi testi sono stati composti nell’arco di un ventennio. Rispetto al suo primo libro (In quieta ricerca) i temi sono gli stessi ma si presentano in altra veste, scarnificati, spesso, da tanti ragionamenti e ridotti al loro nucleo originario.
La poesia salverà il mondo? Alla domanda non c’è una risposta se non quella di chi cerca, nei versi come nelle riflessioni quotidiane, una insurrezione ad un presente di tenebra, partendo dalla propria radice, dal proprio piccolo essere, per proiettarsi in un futuro intravisto, vivendo nell’insicurezza dell’oggi, ma percependola, questa insicurezza, non come malessere o privazione, piuttosto come opportunità per un domani diverso.
Non è un caso se tra gli autori di poesia prediletti da Nicola ci siano Bonnefoy e Char, poeti alla costante ricerca di un rapporto non concettuale o astratto tra le parole e le cose, in cui anzi la parola poetica coincide con la stessa realtà che essa suscita. Nella sua poesia tutto è vigorosamente vivo e attuale; in una parola, tutto è poesia. La forma, pur serbando il verso, ignora la rima, cercando una musicalità mai fine a se stessa.
Per aspera, attraverso percorsi oscuri, difficoltà, sconfitte, ad astra, per arrivare alle stelle. Ma il titolo si ferma solo al primo momento, quello della vita. Certo, è immediato il rimando all’intera frase latina, motto famoso ed abusato. Ma qui ci si ferma alla prima parte. Le asperità sono chiare: il mondo della poesia di Nicola è quello che ben conosciamo di violenza, indifferenza, peccato e orrori vari. Non è consolante la lettura, tutte le asperità della nostra vita, i sensi di colpa, la mercificazione dell’essere, la schiavitù del sesso... Ma ci sono anche improvvisi lampi di gioia. [...]
Non c’è conclusione. La vita cerca ancora un senso alle domande. Le risposte, tentate, non bastano. La via non è stata ancora trovata. Smarrito il senso, continua, però, il perenne interrogarsi ed interrogare.
La conclusione è una visione sulla propria morte: non si può dare un senso alla propria vita, forse altri la daranno un domani, non noi. L’importante è svolgere, nel migliore dei modi possibili, il compito che ci è stato affidato e che abbiamo scelto di seguire.

sabato 9 novembre 2013

Per aspera - La Prefazione di Franco Arminio




Caro Nicola,
la tua poesia mi sembra una poesia religiosa, consapevole che oggi la nostra crisi prima che economica è teologica. I tuoi versi sono meditati, sofferti,  messi in forma con grande misura e perizia. Forse c’è un eccesso di sapienza, forse in qualche caso le parole stanno con la testa ferma sul rigo, tese ad ascoltare e farsi ascoltare.
Non so, ma ogni volta che leggo una raccolta di versi, comprese le mie, ovviamente, sento sempre che dovremmo fare altro. Sento che oggi la poesia sta meglio se è nascosta in organismi più vasti, se non avanza a volto scoperto, tutta circondata dal bianco degli accapo. Abbiamo bisogno di sacro ma non in forma cerimoniale, in forma di fenditure, di incrinature. Mi sarebbe piaciuto leggere queste tue poesie mischiate al libro in cui parli degli autori a te cari. Mi emoziona l’idea di una poesia che si fonde con la riflessione saggistica. Forse siamo chiamati a servire la poesia, più che a servircene. Il difetto delle raccolte di versi forse è proprio nel presentare solo i filetti, i lacerti della nostra esperienza, tralasciando le budella, i tendini le vene, il sangue nero dello squartamento.
Io credo che tu abbia una straordinaria capacità di lettura, nella lettura sai essere spericolato, sai cercare con ardore il cuore di chi scrive. Nei tuoi versi, invece, è come se fossi un po’ frenato dalla tua stessa sapienza, dal tuo rigore. Comunque il tuo lavoro è tra i pochi che vale la pena veramente di seguire. Nel tuo scrivere c’è una straordinaria lucidità e un filo cordiale, accorato. Essere acuti senza essere gentili non serve a niente. E tu sei acuto e gentile.

Franco Arminio

lunedì 4 novembre 2013

Eppure



Eppure
      
Potresti crederlo?
Nella mora triste e avvizzita
esploderà la potenza solare
per l’estasi dei passanti,
fanciulli tornati alla fonte
d’infanzie benedette?

Potresti crederlo?
Sotto la soffice, spietata coltre
sotto la pioggia senza requie,
dei frutti più rossi
ti nutrirai di nuovo dimentica?

L’estate della nostra salute,
Caterina, si sfinisce nel fieno
d’erba medica scolpito in forme pure.

Eppure...


San Cumano, 25 agosto 2013

domenica 27 ottobre 2013

Heaney - Zappando




Tra il mio dito e il mio pollice
la penna tozza sta; comoda come una pistola.

Sotto la mia finestra, un suono stridente
quando la vanga affonda nel terreno ghiaioso.
È mio padre che zappa. Io lo guardo in basso

fino a che con le reni affaticate tra aiuole
si piega, si rialza venti anni dopo
curvandosi con ritmo,  tra le buche delle patate
dove stava zappando.

Lo stivale grezzo appoggiato sul manico, l’asta
faceva leva con forza contro il ginocchio interno.
Sradicò le parti esterne, interrò profondamente le estremità
per seminare le nuove patate che raccogliemmo
godendo della fresca durezza nelle nostre mani.

Per Dio, il vecchio poteva maneggiare una vanga.
proprio come il suo vecchio.

Mio nonno tagliava più erba in un giorno
che chiunque altro nella palude di Toner.
Una volta gli ho portato latte in una bottiglia
tappata trascuratamente con carta. Si raddrizzò
per berlo, poi si curvò
tagliando e affettando con cura, lanciando zolle
dietro le spalle, andando giù e giù
nella terra buona. Zappando.
L’odore freddo delle patate, i suoni dello schiacchiare
e dello sbattere sul terreno fradicio, il secco penetrare di una vanga
attraverso radici vive risvegliate nella mia mente,
ma non ho vanghe per seguire uomini come loro.

Tra il mio dito e il mio pollice
La penna tozza sta.

Zapperò con lei.