giovedì 20 giugno 2013

"In quieta ricerca" XXI




Prima di discutere il contenuto del libro di Nicola Sguera è opportuno soffermarsi intorno alla sua forma. In quieta ricerca, infatti, è una raccolta di vari ed eterogenei scritti, riflessioni, articoli, distanti anche cronologicamente l’uno dall’altro: dal pensiero di Heidegger fino al cinema di Tarkovskij passando per Morin o Illich. Frammentario, dunque, può essere considerato questo lavoro e, si badi, non soltanto in virtù di una tale ampiezza tematica ma perché breve nel modo stesso in cui è stato scritto e pensato. Detto questo, limitarsi alla mera constatazione rischia di  produrre una lettura infruttuosa, di restare alla superficie della questione. La domanda che bisogna porsi è quale sia il significato di questi frammentari e sparsi pensieri, quale sia la ragione di questa forma. Ciò che tiene insieme queste varie riflessioni non è altro che il nostro tempo, questo mondo dove Dio è morto. A tal proposito, mi preme subito dire che una qualità del professore è quella di spiegare questi riferimenti apparentemente astratti, di chiarire concretamente a cosa essi alludano. Comprendere cosa sia l’oblio dell’essere di cui parla Heidegger significa anche, e forse soprattutto, avere visione che si è in presenza che il mondo è devastato, che si è in presenza di una crisi epocale secondo diverse prospettive tanto ambientali quanto umane: ad essere in pericolo è l’uomo. Il modo in cui questa tematica viene affrontata costringe Nicola Sguera a fare i conti con l’intera storia di una terra destinata al tramonto (l’Occidente), a cercare di cogliere quali siano stati i passaggi cruciali e le ragioni fondamentali di questo destino. Nella consapevolezza di non poter filosoficamente prescindere da un’analisi profonda della nostra storia è da rintracciarsi un altro merito di questo lavoro. Soltanto tenendo fermo questo plesso concettuale si comprende la forma del libro, ci si rende conto della non casualità di questa frammentarietà, necessaria dal momento che l’unico modo di abitare questo tempo consiste proprio in un agire consapevole di essere privo di episteme. Ecco perché possiamo dire che sia la forma che la scrittura del prof. traducono un ethos, un modo di stare presso le cose come presso se stessi, unico rimedio rimasto per fronteggiare la catastrofe. Tutti le analisi presenti nel libro risultano interessanti e profonde, sempre svolte in nome di una responsabilità civile (si intravede qui il cattolicesimo-comunista da cui proviene il prof.), attente a quale possa essere il proprio significato e in che modo possa incidere sulla storia. Una critica che mi permetto di svolgere è la seguente: l’accettazione totale di una certa lettura della storia e del pensiero occidentale (quella heideggeriana). Il rischio è di commettere un’operazione filosoficamente scorretta consistente nel persuadersi a tal punto della verità di una particolare, seppur di enorme rilievo, interpretazione. Al contempo va riconosciuto, ed è questo l’essenziale anche per me, che Heidegger risulta può essere utile a rendersi consapevoli che ci troviamo dinanzi ad un cambiamento epocale, assolutamente relato ad un preciso contesto ma non identificabile con alcun momento storico. Infine, alla luce di quanto brevemente esposto, mi chiedo e domando: quest’ethos a cui si allude è veramente nuovo? Non appartiene alla filosofia sin dalla sua origine un modo precario di abitare il mondo, un’etica consapevole di non poter sapere e contemporaneamente responsabile nei confronti della comunità? Si veda Socrate. 

Luigi Santonastaso



sabato 15 giugno 2013

amor vincit omnia: dove Cacciari non osa



Negli ultimi anni, Benevento ha visto transitare, in occasioni e contesti diversi, le voci più autorevoli della filosofia contemporanea italiana: da Vattimo e Cassano (invitati dai Giannoniani) a Galimberti (invitato dall’Università), da Curi e Lecaldano (invitati dal Giannone) a Cacciari, domenica scorsa in un affollato Cinema San Marco, a testimoniare, evidentemente, non solo (siamo a Benevento!) il bisogno di presenziare “eventi” paramediatici ma anche l’urgenza di ascoltare parole “sensate” o, quanto meno, generatrici di interrogazione. A margine, dunque, di questa mia riflessione colloco l’auspicio che, negli anni a venire, i soggetti associativi e istituzionali riescano a fare “rete” (anche con le scuole) per poter creare un momento ben riconoscibile e dotato di una sua specificità nel panorama nazionale di incontro con la filosofia contemporanea.
Poiché molti e qualificati commentatori (da Maria Ricca a Guido Bianchini, da Luigi Furno a Elide Apice, con una per me preziosa coda dialogica all’interno del gruppo Facebook della Libera Scuola di Filosofia: la lettura di tali articoli si dà per assunta qui) hanno dato esaustive sintesi delle argomentazioni sulla lectio di Cacciari (oltre a spunti critici che riprenderò), dedicata fondamentalmente al tema del potere (fra potestas e auctoritas) e della “prossimità”, vorrei soffermarmi solo su alcuni passaggi, intrecciandoli a quanto Cacciari ha elaborato nell’ultimo, complesso ed erudito, suo libro (Il potere che frena, Adelphi).
L’abbondanza di virgolette, inusitata nei miei scritti, segnala la problematicità nell’uso di termini che, come ha detto Cacciari iniziando la sua lectio, andrebbero definiti uno a uno.
1)       L’unico potere che potrebbe ambire ad essere legittimo in questo tempo è quello fondato non sulla potestas (patriarcale) ma su un’auctoritas (capace di coniugare “cura” materna e indicazione di una via di “crescita” del “prossimo” oggetto di tale “potere”).
2)       Il libro si chiude senza una prognosi e senza una prospettiva... Avrei, infatti, voluto provocatoriamente chiedere al professore se «solo un Dio ci può salvare». Dopo aver argomentato, infatti, la fine di ogni potere “catecontico” (capace cioè di frenare l’avvento dell’anomia dell’Anticristo, fuor di metafora: del dominio globalizzato della tecnoscienza e dell’economia), e quindi di ogni potestas statuale, ad esempio, ma anche della Chiesa stessa (cattolica) come è stata strutturata nei secoli, Cacciari non indica la strada da percorrere (di qui la mia, taciuta, domanda provocatoria). Mi pare di cogliere, nel discorso di Cacciari, una latente contraddizione (che potrebbe, dico, potrebbe preludere anche a sviluppi interessanti del suo pensiero) fra una prospettiva, per dirla in soldoni, fortemente “antropocentrica”, “umanistica” (nella lectio ha tessuto un elogio della “tattica”) e una, come dire, antiumanistica, in cui il progettare dell’uomo, la sua capacità di “prevedere” gli eventi, di pianificare, di ordinare, insomma, la sua potestas, entrano irrimediabilmente nel tempo (pre)apocalittico che stiamo vivendo.
3)       Da dove parlo? E da dove parla Cacciari? Io credo che sia atto di onestà intellettuale situare sempre le nostre riflessioni. Mi sarebbe piaciuto che lo facesse anche lui, per evitare ambiguità che, certo, sono fascinose ma anche pericolose. Il suo è un discorso teologico-politico. Ma non è il suo libro stesso a decretare la fine irrimediabile di questo glorioso binomio occidentale? Se ogni potestas terrena ha  irrimediabilmente esaurito le sue energie “contenitive” non sarebbe il caso di fare una scelta limpida verso un’altrove, che pure, in nuce, è dentro una parte (eretica?) della cultura (cristiana) occidentale? Personalmente io ho fatto questa scelta, accettando di ripercorrere tutta la tradizione cristiana, valorizzandone gli aspetti più marginali e “pericolosi” (dai movimenti millenaristici alla mistica), fino a ritrovare nella predicazione dell’ebreo Gesù il senso stesso del mio agire nell’attesa del Regno. Cacciari ha lasciato baluginare nelle sue parole delle “vie di fuga” da un discorso che continua ad essere, suo malgrado, teologico-politico (inevitabilmente, dunque, votato al compromesso con le potenze – demoniache – di questo mondo). Per esempio quando ha evocato Francesco o la necessità di integrare Maria, “Madre di Dio”, nella Trinità (e, dunque, valorizzando quell’aspetto “femminile” di una religione che continua ad essere, come rimarcato da Guido Bianchini, ancora fortemente patriarcale). Ma non è andato oltre. Come se l’impianto stesso del suo dire avesse un vizio d’origine. Nunzio Castaldi, in preziose riflessioni di cui mi approprio, auspicando che egli le sviluppi, per continuare il dialogo, parla della matrice nichilista del pensiero di Cacciari e nota, come me, che non ha mai pronunziato nell’ora di lectio la parola “amore”. E, ancora, nota come, parlando del buon samaritano, metta l’accento tutto sull’esercizio del potere (come auctoritas) da parte del samaritano. Potere. Non amore. Voglio dire che, probabilmente, il libro di Cacciari, come la sua riflessione, malgrado alcune «malchiuse porte d’alti Eldoradi» che lascia intravedere, si infili in un vicolo – letteralmente – cieco, incapace di vedere con occhi che non siano tutti “moderni”.
4)       Per uscirne, a mio avviso, è necessario (ri)attivare quel pensiero (non filosofico) che fa proprio della (francescana) rinunzia ad ogni “volontà di potenza” (che segretamente opera anche nell’auctoritas: Augustus deriva da augeo!). Per esempio, Simone Weil, quando scrive: «Tutti i moti naturali dell'anima sono retti da leggi analoghe a quelle della pesantezza materiale. Solo la grazia fa eccezione. Bisogna sempre aspettarsi che le cose avvengano conformemente alla pesantezza; salvo intervento del sovrannaturale». Mi pare che Cacciari sia troppo figlio ancora di un secolo che ha avuto il mito della programmazione, della “tattica”, per dirla con le sue parole, sia troppo “umanista” (e, dunque, heidegerrianamente, troppo “nichilista”) per fare questo “salto” nella... fede? È fede? Certo, a patto di pensarla tutt’uno con la “carità” come Amore: «La carità e la fede, sebbene distinte, sono inseparabili. Le due forme della carità lo so­no ancora di più. Chiunque sia capace di un moto di compassione pura nei riguardi di uno sventurato (cosa peraltro molto rara) possiede, forse implicitamente, ma sempre realmente, l’amore di Dio e la fede. Il Cristo non salva tutti coloro che Gli dicono: “Signore, Signore”. Ma salva tutti quelli che con cuore puro danno un pezzo di pane a un affamato, senza pensare affatto a Lui. Costoro, quando Egli li ringrazia, rispondo­no: “Quando dunque, Signore, ti abbiamo nutrito?”» (Weil).
5)       Insomma, bisogna avere la forza di un discorso che non sia più, per quanto al limite delle sue possibilità, teologico-politico e che, dunque, continui a presupporre (malgrado la negazione teorica) l’agire di forze “catecontiche” (emblematico quanto detto, alla fine della lectio, sollecitato, sui media), urge entrare nel mare aperto, nell’Abbandono (mistico, francescano) al potere rigenerativo dell’Amore e della Grazia. Potremmo dire che questo è il tempo della grande Riforma in cui ci si salva sola Fide, senza ausilio delle opere inevitabilmente votate al male? E, dunque, questo tempo esige, niente poco di meno che... santi! Ma una santità tutta nuovo, come scriveva, ancora una volta, una di coloro che, nel suo cuore “spezzato”, nella sua testimonianza priva di tattica, nel suo letterale lasciarsi morire con chi moriva durante la seconda guerra mondiale, ha testimoniato questa inaudita possibilità che rimane all’Occidente cristiano di salvare e di salvarsi: «Viviamo in un’epoca che non ha precedenti, e nella situazione presente l’universalità, che un tempo poteva essere implicita, deve ora essere totalmente esplicita. Il linguaggio e tutto il modo d’essere ne devono essere impregnati. Oggi non è sufficiente esser santo: è necessaria la santità che il momento presente esige, una santità nuova, anch’essa senza precedenti […]. Un nuovo tipo di santità è qualcosa che scaturisce d’improvviso, una invenzione. Fatte le debite proporzioni, mantenendo ogni cosa al proprio posto, è quasi un fatto analogo a una nuova rivelazione dell’universo e del de­stino umano. Significa mettere a nudo una larga porzione di verità e di bellezza sino ad ora nascosta sotto uno spesso strato di polvere. Esige più genio di quanto sia occorso ad Archimede per inventare la meccanica e la fi­sica: una santità nuova è un’invenzione più prodigiosa».
Di aspiranti santi abbiamo bisogno, non più di professori di teologia o di politica, con le loro strutture che rischiano, sempre più, di divenire sepolcri.

(Articolo apparso su «Sanniopress» nel giugno 2013)